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Allonsanfàn
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Benjamín Labatut. In MANIAC la scienza tra demonio e santità

Anni Trenta. Mentre gli artisti, con spirito anarchico, scassano il mondo nell’allegria ubriaca dei nuovi -ismi, vecchi e nobili arnesi della scienza vengono superati (anzi destrutturati) dai nascenti astri della fisica quantistica, da inediti giocolieri della matematica.

Einstein abbozza, ma Paul Ehrenfest, scienziato d’Austria, cattedratico bipolare e in quanto ebreo bersaglio prossimo venturo del nazismo, si uccide dopo aver ucciso Wassik, il figlio affetto da sindrome di Down.

Dobbiamo prendere Paul, il primo capitolo, la prima fulminea biografia di MANIAC (Adelphi) di Benjamín Labatut, come la fine di un’era e l’inizio di un romanzo che ha un cuore da saggio oppure è l’esatto contrario – soggetto e oggetto: la verità o il volto spaventevole della ricerca scientifica e le mosse (giocate in equilibrio sui rischi del sapere) dei suoi protagonisti.

Che cosa succede quando il mondo fuori non può più essere racchiuso in uno sguardo razionale? Che cosa accade quando la matematica, ultima dea, pare perdere il suo saldo e incontestabile dominio e prestigio di massima ordinatrice delle nostre conoscenze? Ehrenfest rifiuta un patto faustiano – diversamente farà John, cui spetta la quasi totalità del racconto, mentre la terza biografia sarà l’epilogo dedicato al giocatore di go Lee.

John, cioè Jónas von Neumann (1903-1957), da Budapest, anzi da Pest, intelletto precoce e straordinario, ci viene presentato da famigliari, compagni di studi, colleghi e maestri in tanti capitoli scritti in prima persona.

Con MANIAC (Adelphi), Benjamín Labatut (1980) affronta e circonda da ogni lato un uomo che, con la sua macchina calcolatoria, antesignana del computer, è destinato a cambiare il posto, qualsiasi posto, in cui noi oggi viviamo, con buona pace del padre banchiere che lo riteneva non più di uno “squilibrato matematico”.

Nell’esordio (italiano), Quando abbiamo smesso di capire il mondo (Adelphi), lo scrittore cileno mescolava nuove scoperte con le nequizie che, non solo da effetto collaterale, ne erano derivate – esemplare la tortuosa storia che dal colore sintetico detto blu di Prussia portava al gas Zyklon – e anche ora, mentre abbiamo fresca la memoria degli occhi ghiacciati dell’Oppenheimer di Christopher Nolan, sembra proporci un percorso tra paradiso e inferno.

Nel campo di matematica e fisica, esiste un profondo legame che unisce sapere e potere e connette i progressi della scienza – spesso raggiunti in estasi demoniaca, secondo Labatut – con il pericolo per l’esistenza stessa degli uomini piccoli e ignoranti che siamo noi.

Dovrebbe uscirne, da MANIAC, oltre che un romanzo una brillante lezione o, meglio, ne esce una brillante lezione (universitaria o morale?) in forma di romanzo.

Labatut coglie attraverso il suo “eroe” (virgolette nostre) il momento del “vertiginoso cambiamento” in cui “…Il fascismo stava prendendo piede tutt’attorno a noi, la meccanica quantistica stava destabilizzando le nostre idee su come si comporta la materia all’interno degli atomi, e le teorie di Einstein stavano rivoluzionando i nostri concerti di spazio e tempo” (pag. 88).

Bejnamin Labatut (credit: Rodrigo Fernández)

Jónas diventa Johnny, lasciando l’Europa per l’America all’ultimo istante possibile, e col suo genio cinico, tradito nel quotidiano da comportamenti beffardi e infantilmente asociali, sopravvive alle ossessioni che falcidiano la categoria dei più creativi scienziati. Al proposito: l’incontro con uno scheletrico e afasico Kurt Gödel fornisce uno degli episodi più godibili e inquietanti del romanzo della scienza di Labatut.

Ma già siamo dalle parti di Los Alamos, New Mexico, dove l’alacre lavoro dei cervelloni accende nel deserto una grande e accecante luce bianca. Loro (i fisici, chiamati per segretezza ingegneri), prima di spaventarsi, giocano compulsivamente a go, parente più attraente degli scacchi, il che offre a John, in costante riflessione, l’elaborazione di una teoria del gioco – perfetta, almeno se il gioco è svolto razionalmente da due parti in competizione – e al contempo lo schema Mad (Mutual Assured Destruction) per la Guerra fredda tra USA e URSS. Diventa tutto più chiaro. Einstein è la Colomba. Von Neumann, se non il guerrafondaio, l’uomo che non crede nella pace duratura.

Di certo, è colui che mette a punto la macchina sognata da Touring nel 1937, ridicolizzando il gigantesco ENIAC di Filadelfia. È il 1951: entra in gestazione il MANIAC (acronimo per Mathematical Analyzer, Numerical Integrator e Computer). Può servire per costruire la bomba all’idrogeno. “La più distruttiva e la più creativa delle invenzioni umane nascono nello stesso momento”: è solo un paradosso?

John sogna di prevedere, per sempre, i fattori climatici e contrastare a suon di bombe gli uragani. Oppure, addirittura, di usare la macchina, il computer, per creare nuove forme di vita…

La domanda (fatta da Labatut tramite il rispettabile Eugene Wigner in un capitolo intitolato I cavalieri ungheresi dell’Apocalisse): gli scienziati sono mostri o matti ad aver portato questi demoni al mondo, queste forze distruttive che potrebbero spazzarci dalla faccia della terra? Sentirsi Prometeo e recare il dono di Prometeo all’incandescenza è la vera colpa dei suberbi ricercatori. O no?

Quando Neumann viene colpito da un cancro e pensa ad altro (finalmente?), vorrebbe ripristinare un pantheon di dei di cui l’umanità ha bisogno, secondo lui, come del pollice opponibile.

Noi abbiamo coltivato solo la téchne e del resto non sappiamo più niente, pensa l’ultimo Neumann, siamo regrediti al livello dei popoli dei tempi antichi. Gli ultimi giorni della vita dello scienziato sono deliranti e choccanti anche per un uomo larger than life come lui, che abbiamo conosciuto in virtù e vizi, comprese le liti furibonde con la moglie Klára in una casetta piccolo borghese, mentre entrambi sono preda della nevrosi e dell’alcol.

Al termine non ci si può sottrarre a un pacificante aforisma bacio perugina, poche parole che si inseguono isolate al centro della pagina, in carattere corsivo, come più volte succede nel libro tra una testimonianza e l’altra. Chiesto in punto di morte, che cosa ci vuole perché un calcolatore, o una diavoleria simile, pensi come un essere umano, John von Neumann, l’uomo che non ha sfidato Dio solo perché non ci crede, risponde che deve crescere da solo e non deve essere costruito. E giocare come un bambino – Labatut chiude, come aveva fatto per Paul, con la fotografia in bianco e nero di Neumann, che ha la faccia di un modesto impiegato o di un caratterista del cinema USA anni Cinquanta. Niente svela in lui – “the smartest human being of the 20th century” come viene definito nel libro – il carattere di moderno mago, di alchimista…

Sipario con epilogo mediante una terza biografia e una terza piccola foto. Abbandonate le maschere dei personaggi della recita, Labatut si svela in tutta la sua efficacia di narratore e persino di divulgatore prima ancora che di romanziere tradizionale, affrontando Lee, giocatore del go che faceva impazzire Los Alamos. Lee Sedol, geniale maestro coreano, si batte in una esibizione contro la macchina DeepGo e, durante una partita, il 10 marzo 2016, precisamente alla sorprendente mossa 37, si assiste “al primo barlume di una vera intelligenza artificiale”. Scriveva già Labatut ne Le pietre della follia (Adelphi) che a un’evoluzione tecnologica non corrisponde affatto un mondo più ordinato e comprensibile: l’AI sembra dare il colpo di grazia alle nostre superstiti esigenze di controllo. Aspettiamo dallo scrittore cileno la prossima puntata…

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