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Filippo Barbagallo. Troppo azzurro, ma va bene così

Ma poi, è giusto prenderlo a mazzate perché si è occupato soltanto del suo orticello? Perché, sorridendo sarcastici, aggiungere la battuta: “è un Nanni Moretti sgasato” oppure “è figlio di un Nanni minore”? – battuta cattiva due volte perché Filippo Barbagallo, registattore al debutto con il lungometraggio Troppo azzurro, non per caso fa di cognome come il Barbagallo sodale del cineasta di Caro Diario.

Ma insomma perché poi i boomers se la prendono con una generazione di cosiddetti sdraiati – il protagonista del film usa in effetti il letto come fosse una scialuppa di salvataggio – se poi, quando civilmente questi poveracci protestano per strada, vengono trattati da nipotini di Hitler o manganellati come i più pericolosi dei sovversivi?

Barbagallo con Martina Gatti. In alto, con Alice Benvenuti

Prendiamo atto: Filippo Barbagallo ha fatto un film molto privato, molto tenero e un po’ ironico, forse più che morettiano digregoriano – e ciò nel senso che gli ha dato una mano proprio Gianni Di Gregorio – su un 25enne che è (copiamo la sinossi) “aggrappato al suo equilibrio da adolescente: vive ancora casa con i suoi e ha lo stesso gruppo di amici dal liceo. Quando nel torrido agosto romano inizia a frequentarsi prima con Caterina, una ragazza conosciuta per caso, e poi con Lara, la ragazza ‘irraggiungibile’ che ha sempre amato, dovrà scegliere se restare nella sua comfort zone o lasciarsi finalmente andare…”.

Né più né meno. Prendere o lasciare. Ma si può vedere e magari con piacere – in fondo abbiamo appena registrato l’incomprensibile plauso per quel clippone da ruspante videomusic che è Gloria! E poi, persino negli Stati Uniti, dalle parti di New York, ha fatto successo qualche tempo fa un gruppo di registi denominati “mumblecore”, che raccoglieva cineasti indie biascicanti dei cazzi propri – certo, loro erano indie e cool anche nelle riprese assai low budget e non lenti e convenzionali, un po’ troppo telefonati e televisivi come qui…

Ma appunto. Filippo Barbagallo dice: “Mi piaceva l’idea di raccontare una storia che avesse il tono di una conversazione fra amici. In cui non si ha la pretesa di sorprendere a tutti costi, né di spiegare qualcosa, in cui si sdrammatizza per non annoiare e anche un po’ per pudore. Volevo che fosse come una birretta leggera, che butti giù in un attimo e ti viene da dire: ‘Oh, alla fine oggi non si sta mica male’ ”. La miglior difesa (e dichiarazione di poetica “alla spina”) se l’è fatta lui. Diamo quindi la nostra simpatia (se conta qualcosa) a Filippo Barbagallo mentre guarda il mondo attraverso i suoi grandi occhiali da bravo ragazzo intelligentemente perplesso davanti alla vita.

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