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Allonsanfàn
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(S)visto per voi. The Outsider di Stephen King, che parte in quarta e poi alza il medio

Quale sarà il momento in cui tutto andrà in vacca? Parafrasando il celebre assioma di Sherlock, trattandosi di Stephen King, una volta eliminato l’impossibile, ciò che rimane, per quanto improbabile, non sarà la verità, ma una solenne stronzata. Nella codificata provincia americana, tra mall e strip bar, poliziotti alcolisti, campi da baseball e famigliole dentro villette arredate come mezzo secolo fa, un ragazzino viene violentato e ucciso. Prove schiaccianti manderebbero all’ergastolo un rispettabile professore di letteratura ma un video lo mostra in quel momento presenziare a un corso di aggiornamento (di scrittura creativa?) da tutt’altra parte. È lui o non è lui? si sarebbe esclamato al Drive In.

Mentre il buon Ben Mendelsohn, che avevamo lasciato in Florida nel resort della famiglia Rayburn di Bloodline e ora appare frastornato, scottato dopo una sbornia di un paio di giri sulla giostra mainstream in compagnia dei supereroi, non prende nemmeno in considerazione l’ipotesi di un gemello e ci vuole l’intervento della detective privata al terzo episodio per eliminare anche il sospetto di un doppelganger.

D’altronde King non è Poe, e l’orrore non nasce dal reale, ma dalla zuppa di paranormale, soprannaturale, magia nera e brutti ceffi col cappuccio (la versione maniaco sessuale del senatore Palpatine di StarWars?). Cynthia Erivo avrà anche la mente enciclopedica di Rainman, applicata alle cilindrate delle auto e ai fuoricampo, ma poverina risulta assai improbabile nei panni della seduttrice da camera d’albergo che fa ricerche al pc crogiolandosi nella vasca da bagno. E nelle serie tv se sbagli il casting – e qui già hai preso l’improbabile Mare Winningham a giocare da moglie – è un attimo che ti crolla l’audience da divano.

Gli episodi della miniserie HBO si trascinano con la scusa che al satanasso di turno piace indugiare non accontentandosi della vittima prescelta ma puntando al jack pot dello sterminio dei congiunti e pure delle sotto trame, mentre la regia svela tutto il repertorio di King: presenze demoniache, pupazzi che muovono le orbite, incubi popolati di mostri, bambine possedute, figli morti che ritornano, cimiteri… ma anche disturbi ossessivo compulsivi, Alzheimer, aerofobia… El Coco è il nome della Cosa che si nutre delle lacrime e al dunque si diffonde come lo streptococco: il risultato è quello che abbiamo anticipato. Ai condannati a morte appare sulla nuca un’escoriazione ma, senza scomodare Lacan, a qualcuno magari potrebbe venire in mente di raccomandare un dermatologo.

Si parte sperando d’essere dalle parti della prima serie di True Detective ma resta il sospetto che l’identikit sia quello della faccia di gomma di Stephen King e che ancora una volta sia lui il solo outsider a divertirsi mentre passa all’incasso mostrandoci il medio.

  • Per altri (s)visti di Gabriele Nava, qui.
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