UN BLOG
IN FORMA DI MAGAZINE
E VICEVERSA

Allonsanfàn
{{post_author}}

Pieces of a Woman con Vanessa Kirby. Il lutto di una madre e l’irreparabile nel film di Mundruczó

Un consolidato modulo narrativo prevede di prendere un personaggio o più di uno, dargli una spinta per calarlo in una situazione limite, e stare a guardare come si comporta, con buona pace del signor Freytag. È quel che accade in Pieces of a Woman, titolo da indagine sociologica ma anche un po’ mélo, a Martha/Vanessa Kirby.

La troviamo, ben prima dei crediti di testa, alla scadenza del nono mese, borghese progressista con impiego da colletto candido, con a fianco il compagno, Sean/Shia LaBeouf, barbuto e rude colletto blu, nella ghiacciata (anche umanamente) città di Boston, Usa.

Martha aspetta l’ostetrica per un parto da farsi rigorosamente in casa, ne arriva una improvvisata, dall’atteggiamento empatico ma con fastidioso e già allarmante birignao new age, e viviamo il suo dramma in 23 estenuanti minuti di piano sequenza che ci immergono fin nei minimi particolari nel travaglio della donna.

Senza spoilerare, per il suo primo film in lingua inglese – e così andrebbe visto, per goderne il ritmo e la bravura degli interpreti – l’ungherese Kornél Mundruczó (classe 1975, ampio curriculum teatrale e vittoria a Cannes a Un Certain Regard 2014 con White God) pesca dalla sua esperienza e fa sceneggiare la storia autobiografica dall’ex moglie Kata Wéber. Dopo l’inizio live e sporco (ma neanche), Mundruczó procede per ampi quadri, scanditi di mese in mese dall’immagine di un simbolico ponte in progressiva costruzione, con una narrazione più che densa di ellissi.

In questo modo, si staglia ancora di più, tra il non detto e il non raccontato, il disgregamento del piccolo nucleo famigliare, il disagio di lei, lo spiazzamento di lui, la prepotenza della madre di lei, Eva/Ellen Burstyn, sopravvissuta a un difficile passato, che è ricca e invasiva, con tendenza a fare il deus ex machina impiccione di ogni svolta della vicenda: dalla necessità di portare l’ostetrica a processo alla sepoltura della bambina, il cui corpo Martha vuole invece “regalare alla scienza”.

Non bastasse, la “semplificazione” anche visiva delle scene inserite nel paesaggio prima gelato poi stilizzato della città e popolate dal minimo sindacale di comprimari (almeno fino al processo), conferisce sintesi al racconto, quando non toglie qualcosa per scelte troppo estetizzanti. Punto di vista nostro, questo, poiché abbiamo letto sull’Internazionale, che questo copione studiato fino all’infimo particolare sarebbe “un film che rompe gli schemi tradizionali della raffigurazione del dolore umano togliendogli qualsiasi tipo di filtro estetico”. No.

Comunque e sia chiaro: in prima e ultima istanza, poiché il problema patito è della donna, Pieces of a Woman è il film della madre mancata Martha/Vanessa Kirby e dell’elaborazione di un lutto – e non per caso l’attrice-mattatrice, nota per aver impersonato la principessa Margaret in The Crown, si è portata via la Coppa Volpi all’ultima Mostra di Venezia.

Il suo uomo e la madre cercano invano – o così accade all’inizio – di circoscrivere o di pilotare il suo dolore costringendola a atteggiamenti che Martha avverte come falsi, ipocriti, dovuti alla convenienza sociale. I silenzi del disamore, le scarne scene madre (ossimoro), i tradimenti (ovvio), la comparsa delle dipendenze da infelicità (sigarette, alcol, cocaina) ci fanno dubitare ma non mancare la speranza per lei (e per tutti) di un the end se non happy almeno aperto sul futuro. Poi, i settimanali femminili potranno fare i pezzi di servizio su parto in casa sì, parto in casa no…

Chissà perché in un film così studiato – comprendente la metafora esibita del ponte in costruzione (guardate il finale e poi scrivetemi se Mundruczó non ha esagerato) – ci è venuta in mente la disperazione senza rete di Gena Rowlands in Una moglie di John Cassavetes (quando sarebbe più opportuno forse tirare in ballo nei paragoni un altro film di Netflix, Marriage Story di Noah Baumbach): forse perché è appunto, come questo, il film di un’umanissima caduta libera nell’irreparabile, di una sofferenza, pura e “incivile”, quasi difficile da spiegare in immagini e parole non scontate e artefatte – da cui il forte senso di spiazzamento/coinvolgimento e di angoscioso vuoto che provocano a noi che guardiamo. Ha prodotto Martin Scorsese, si aspettano le nomination all’Oscar.

  • Fulvio Carbonato è un pubblicista milanese
I social: