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Allonsanfàn
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La legge della banalità e tutti i cliché di un Dinner club

Sostiene Bartezzaghi che essere creativi significa fare qualcosa di sostanzialmente nuovo. Resta da chiedersi che cosa sia il nuovo. Fino a quando non lo si comprende, prosegue Bartezzaghi, si resta nel vago anche perché la creatività ha diversi ambiti di svolgimento. Il più basso «è il livello più vicino alle percezioni della società di massa. La creatività di un giornale, della televisione, del cinema o dei social ha una funzione mitologica. Creano miti che si rinnovano. La moda e i media sono, in un certo senso, condannati a essere creativi perché hanno a che fare con il “nuovo”». Impossibile non condividere le conclusioni: «Mentre la creatività tecnologica si manifesta sotto forma di innovazione, nel mondo dei media (giornalismo, televisione, intrattenimento, pubblicità) la creatività è un fattore di originalità la cui natura tende a usurarsi». In tal modo, dice Bartezzaghi, «l’approdo ultimo della creatività è la banalità, diciamo la sua estensione mediocre nella vita quotidiana».

Stefano Bartezzaghi (da non confondere con il padre, famoso enigmista) è un semiotico allievo di Umberto Eco.

Fortificato da queste riflessioni che in qualche modo confortano il mio essere un piccolo artigianello della pubblicità, mi sono accinto alla visione di Dinner club, docuserie in onda su Prime video. È un prodotto che fonde l’intrattenimento con la moda del cibo, la cui originalità – come tutti i prodotti del mondo dei media – sfida la legge della banalità teorizzata dal Bartezzaghi. Dinner Club è un circolo di gourmet composto da Diego Abatantuono,  Fabio De Luigi,  Pierfrancesco Favino,  Sabrina Ferilli, Luciana Littizzetto e  Valerio Mastandrea. A turno accompagneranno lo chef stellato Carlo Cracco in un viaggio alla scoperta della cucina popolar-autentica d’Italia. Il plot narrativo, semplice che anche un pitbull è in grado di comprendere, consiste nell’andare, scoprire, tornare e riproporre alla compagnia una cena – più o meno – perfetta. Virgilio di ogni avventura eno-gastronomica è ovviamente Carlo Cracco.

Tralascio i commenti para-sociologici e i minima moralia sulla serie; incominciano più o meno tutti con “nel momento in cui il cibo viene ordinato online e consumato fugacemente, si tratta di recuperare la dimensione della tradizione culturale più autentica ecc. ecc.”.  Hanno tutti, chi più chi meno, il sapore rancido del pippone scritto da noi artigianelli della comunicazione nella speranza di vendere un’idea creativa alla Grande Produzione, e il trattatello pseudo-filosofico di chi vorrebbe saper pensare come Stefano Bartezzaghi, ma ovviamente non ci riesce. Diciamo subito che la serie si lascia vedere; sicché i fans avranno il modo di gustarsi lo spettacolo offerto dai loro beniamini.

Bene, e quindi? si domanderanno i fedeli suiveur di queste noterelle, che c’entra la creatività mediale teorizzata da Bartezzaghi? Il problema, la questione creativa, riguarda proprio i personaggi del Dinner Club. Non si comprende infatti se la “recita di se stessi” sia una scelta narrativa, una sorta di “obbligo” nel disegno del format, oppure una condizione naturale e per così dire fisiologica che imprigiona gli attori all’interno di un cliché; un personaggio eterno che, incapace di essere altro, ripete all’infinito caratteri e birignao, azioni e automatismi. In tal modo la “novità creativa” teorizzata da Bartezzaghi si consuma nella banalità con velocità enormemente accresciuta. Proprio ciò che accade agli spot pubblicitari che pure, in prima battuta, avevamo trovato sorprendenti e, per l’appunto, “creativi”.

Perché la Littizzetto sia sempre prigioniera del suo personaggio acidulo, ipercritico e affetto da pornolalia compulsiva; perché Valerio Mastandrea riproponga anche in questo contesto i suoi tic e le sue nevrosi; perché Fabio De Luigi sia prigioniero del repertorio che propone fin dai tempi della Canalis, resta un mistero. Recitano un copione o sono autentici perché altro non sono né possono essere? In buona sostanza, sono attori prigionieri di un cliché oppure altro non sanno fare? (Discorso a parte per la Ferilli, la cui naturale sguaiatezza plebea è esaltata da un trionfo di chirurgia plastica che le ha deformato il volto un tempo di notevole bellezza; la poveretta non recita, è).

I più attenti avranno notato che mancano Diego Abatantuono e Pierfrancesco Favino. Pur non rinunciando a essere quello che con buona probabilità sono ogni giorno anche al bar sotto casa, escono dal cliché, sfuggono dalla macchietta condannata in eterno a fare quella mossa o a scompisciarsi nel cachinno che il pubblico attende e pretende; nel confronto con Cracco lungo gli eventi del viaggio appaiono come persone e non come personaggi, rivelando un’intelligenza e un’umanità originale che non si esaurisce nel “nuovo” destinato a trasformarsi in banalità prevedibile. Ne concludo che pur all’interno del format era dunque possibile “essere se stessi” in modo originale, e sfuggire così alla prigione del personaggio costretto a ripetersi all’infinito.

Un ultimo commento su CC, in arte Carlo Cracco. Nutrivo nei suoi confronti un fastidio che neanche il gesso sulla lavagna. L’aver concesso l’aura della sua credibilità alle patatine Pai – il prodotto che più industriale è forse solo la pasta dei meccanici per pulirsi dall’unto – aveva acceso in me il furore del cittadino-consumatore che avverte il fetore della “Milano da bere”, i merdosissimi anni ’80 che hanno segnato il nadir della società italiana. Intendiamoci, adoro le patatine industriali, particolarmente le San Carlo 1936; ma credo ci sia qualcosa di dissonante in un ristoratore da 200 euro a testa che si spende per raccomandare un pacchetto di olio fritto e sale.

Bene, spazio all’autocritica. Il miglior attore della serie (tra l’altro quello che ha il maggior numero di inquadrature) è lui. Recita benissimo, oppure più banalmente è semplicemente se stesso? Un uomo garbato, curioso, gentile, allegro, intelligente, sportivo e seduttivo il giusto senza mai eccedere né strafare. Mai sopra le righe, mai la sensazione di inautenticità. Per dirla tutta, il senso di una aristocratica sprezzatura che nel nostro Paese è merce persino più rara di quella cosa che chiamiamo “senso dello Stato”. La vera creatività, intesa nella forma in cui può manifestarsi nella realtà del mondo dei media, la esprime lui. Speriamo che duri.

P. S. Dimenticavo, forse per via del fatto che sono un anziano cisgender: il Cracco è pure un uomo di grande bellezza. L’invidia sta per raggiungere livelli di guardia.

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