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Freaks Out di Gabriele Mainetti. Ma i mostri non stanno al circo

Se niente è ciò che sembra, che cosa mai si celebra al Circo Mezza Piotta, secoli dopo che Zampanò ne ha fatto strage di ogni magia? Mentre al Circus Berlin, per la gioia dei nazi che si vorrebbero tarantiniani ma al massimo ballano la tarantella come le Sturmtruppen di Bonvi, si seleziona solo ciò che è e si trucida sul posto ciò che sembra e perciò non è all’altezza d’essere rappresentato al cospetto del Führer: persone non solo speciali ma anche straordinarie, le gradite, meglio se in vendita come i gazzettieri col cervello sulla linea non di trincea ma editoriale, il resto è mancia: la solita accozzaglia di nani col pisello lungo, pagliacci, acrobati, virologi, gobbi, cenciosi ma ossigenati, lanciatori di coltelli e financo i trampolieri, praticamente tutto quello che passa la televisione esclusi i leoni e le tigri, perché con la scusa del politically correct se addestri pecore è meglio poi non spaventarle, sia mai che a vedere gli animali feroci in gabbia gli sovvenga il dubbio che fuori dai display 4K a qualcuno scorra ancora del plasma nelle vene e perciò si chieda come mai, se si deve rispettare la libertà degli animali, poi ci si faccia beffe di quella degli umani. Forse che non c’è vita senza pericolo e al dunque sia preferibile a una tranquilla schiavitù salame e formaggio garantiti?

Nel calderone sceneggiato male, l’unica cosa che vien via a prezzi stracciati anche quando hai 12 milioni di budget, la storia procede e pure a fatica solo perché si fanno scelte illogiche (vuoi vedere che dalle fessure ogni tanto s’infila la luce della verità rivelatrice di certe narrazioni epidemiche che fanno acqua da tutte le parti senza nemmeno la scusa d’aver sospeso l’incredulità?), uno che parte, l’altra che se ne va soltanto per farsi ritrovare, tutti che se la vanno a cercare per allungare un brodo che è già insipido come la minestra dei partigiani che ovvio non possono che cantare Bella ciao in versione cover dopo il successo flamenco della Casa de Papel, mentre per stare nel malinteso realismo si dipingono non per ciò che sono ma per ciò che vorrebbero essere per non sembrare falsi, a loro volta come mostri (e il rispetto delle quote rosa dove lo mettiamo nella banda progressista se pure tra i Fantastici Quattro de noantri il rapporto è di tre a uno?) solo in attesa d’essere rivalutati nella storia sempre scritta dai vincitori non per ciò che sono stati ma per ciò che si vuole rappresentino, fino ai tempi nostri dunque, in bella mostra tra le Bebe e i Meme e le Segre e il fascismo degli antifascisti al tempo dei fascisti che lo sono ma non lo sembrano, i dittatori sempre a casa degli altri e i Dragons sul Trono delle Cappe e delle Spade, i brutti sporchi e cattivi che la sfangano sulle uniformi inamidate dei nazi cattivoni in stile slapstick dove il più cattivo è un Caino con sei dita, ma quando mai?

E i personaggi? Meglio sarebbe sembrassero ciò che non sono, dato per certo che i mostri più pericolosi non sono da mai quelli che lo fanno al circo, ma quelli che fuori dal tendone girano coi guanti di plastica e la museruola e il chihuahua nella borsetta, ci eviterebbero almeno la deriva sentimentale, il melodramma della mamma morta e la fine di Israel: tutto sto giro a scopiazzare dalle serie tv, dai Marvel ai Disney agli Snowpiercer, per finire sparati come fiorellini nei cannoni tra De Gregori ed E.T.? E quindi al dunque ciò che sono, i nuovi mostri: un figlio di papà, il reuccio di Tor di Nona, la prima della Classe degli Asini e il Cane senza il pelo, che almeno lui non ci mette la faccia e in scena ha la buona sorte di scopare a pecora una Cagna che non si rade la topa né si fa illuminare d’immenso non essendo elettrica. L’unica donna, futura più di quella patetica di Veronesi e scampata infatti alle premonizioni visionarie (ma qui e ora chi dopo un progetto non ha anche la sua vision?) dei nazi che al massimo indovinano King e Popeye e l’iPhone, che è ciò che è non essendo ciò che è (devo fare un disegnino come Franz per i dipendenti dall’etere catodico?), capitata sul set per caso, evidentemente, e infatti non si sa che fine abbia fatto come la pupa in braccio alla deportata. Di cognome, all’anagrafe di Roma Città Chiusa, avrà fatto Me’ Gafin.

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