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Allonsanfàn
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Parlando con Muhammad Ali della differenza tra violenza e ribellione

Sono tra quelli che ogni tanto gli scappa ancora di chiamarlo Cassius Clay, non per mancanza di rispetto, al contrario, solo perché così lo chiamavano nella mia famiglia e in quelle dell’Italia di fine anni Sessanta in cui sono cresciuto, le stesse in cui chi era nero veniva chiamato ancora “negro”.

Muhammad Alì è più grande di un simbolo, ma il romanzo e la retorica, mai così giustificate, intorno alla sua figura li trovate sviluppati altrove – iconica e consueta intervista a Gianni Minà compresa – sui giornali, qui volevo parlare di un’altra cosa, del combattimento e della violenza. Perché nella vita, che tu voglia o non voglia, sei sempre costretto a fare a botte, troppo poco spesso in maniera metaforica, vieni sempre sfidato da uno o più prepotenti che vogliono importi le loro regole, la loro mafietta tribale, compagni compresi, e fai fatica non tanto a non soccombere quanto a trovare un’ispirazione che ti permetta di sopravvivere. Mohammed Alì, la cui foto campeggia anche in molte palestre di arti marziali come forma di estremo rispetto, è l’ispirazione giusta contro prepotenza e prevaricazione nella società.

Nelle famiglie piccolo borghesi, che sono l’ossatura del conformismo di massa italiano, si dice sempre ai figli che devono rifuggire da ogni forma di violenza. È giusto, per carità, ma così facendo sembra che la violenza dipenda da un solo soggetto, così quando ti ritrovi circondato da quattro stronzi di qualsiasi ceto sociale che sono usciti di casa soltanto per menare il primo che passa o, peggio ancora, dai consueti quattro stronzi in un posto preciso – la scuola è quello privilegiato – finisci per prenderle senza fare niente, continuando ad avallare coscientemente o no il principio che nella società chi è debole deve comunque soccombere. Da giovane con le mani, da grande con il sistema di leggi e leggine che ti fanno guadagnare 3 euro l’ora per un lavoro e poco più di niente con la pensione.

Tra ipocrisia e rimozione

La violenza viene demonizzata in maniera stupida, con la rimozione, come se non farla conoscere, non parlarne, non insegnare a difendersi potessero contribuire a eliminarla. Ma la violenza è la chiave del mondo in cui viviamo, oggi in una forma molto più viscida e sottile di ieri, basti pensare al revenge porn, ai ricatti digitali, alla diffamazione incontenibile a mezzo social.

Lo so che è un ragionamento pericoloso, soprattutto per quelli della mia generazione e quelle ancora prima per cui la violenza in politica divenne un mito, ma non è rimuovendo i problemi che li risolviamo, anzi, è facendo finta che bisogna comunque andare avanti come se il problema non esistesse che diamo un grande contributo al diffondersi della violenza come modello di vita sociale ed economica.

Nella società del politicamente corretto, a dimostrazione dell’origine piccolo borghese di questa visione ipocrita, chi mena per primo mena tre volte, sia che ti colpisca con un pugno sia con il ricatto economico che tanto se ne trova un altro a fare per cinquanta centesimi l’ora in meno il lavoro che a te comincia a fare schifo di fare. Perché, dopo che ti è stata usata violenza, a te che sei una persona “perbene” viene insegnato che non puoi e non devi usarla, devi usare la legge, devi passare dieci anni in tribunale senza stipendio e senza lavoro.

Deve essere chiaro che non incito nessuno a usare la violenza ma a ribellarsi sì, perché il succo della questione dell’ipocrita esecrazione della violenza tout court è che porta come risultato a un mondo dominato esclusivamente dalla violenza dei forti contro i deboli. Nessuna “brava persona” dovrebbe accettarlo come ineluttabile.

Nessuno perde finché combatte

Muhammad Alì nato il 17 gennaio di ottanta anni fa si è ribellato. Prima alla dislessia poi ai bulli razzisti di Louisville, dove nacque, infine al governo degli Stati Uniti e anche, purtroppo, al morbo di Parkinson. E ha vinto. E mentre si ribellava non era un idolo dei media con un largo seguito di fedelissimi, era una persona sola, che aveva fatto una scelta di campo precisa. Dopo, soltanto dopo, è diventato un fenomeno di massa. Perché nessuno è sconfitto finché combatte, questo ci ha insegnato ed è la lezione fondamentale. E noi, gli sconfitti del XX secolo, i cittadini di serie B del XXI secolo basato su apparenza, soldi, successo e fregnacce, gli invisibili del lavoro nero, gli increduli delle morti per freddo, i sensibilizzatori del cambiamento climatico, avremmo il dovere di non smettere di combattere perché siamo stati sconfitti in passato, ma al contrario quello d’insegnare a chi verrà come combattere meglio. La violenza non si combatte facendo finta che il mondo sarà per sempre dei prepotenti, assolvendoci moralmente nel dire che no, non devi mai scendere al loro livello, sperando che a te e ai tuoi cari non accada niente. Si paga un prezzo, certo, non accettare di pagarlo fa parte della pantomima finto buonista di non accettare la violenza.

Il mondo che io amo, e che mi piacerebbe anche voi amaste, è tutto racchiuso nel cazzotto all’impossibile di quella magica notte a Kinshasa, in quella semplice combinazione di uno due uno due con destro finale, uscendo dall’angolo dopo otto round e 24 lunghissimi minuti di continue mazzate, terribili, micidiali per chiunque, prese al volto e al corpo, ma non nell’animo, dall’uomo fino ad allora più forte del mondo e imbattuto, vedendolo crollare a terra. E, fate caso al filmato, evitando di proposito di dare un ultimo colpo mentre quello cadeva a terra ormai indifeso. Questa è la differenza tra violenza e ribellione.

Credit: Training boxing gloves used and signed by Cassius Clay by Post Manufacturing Co. is licensed under CC0 1.0. Muhammad Ali – Boxer sprawled over Three Billboards 8563 by Brechtbug is licensed under CC BY-NC-ND 2.0 Malcolm X and Family Visit Cassius Clay at Training Camp – Jet Magazine, February 13, 1964 by vieilles_annonces is licensed under CC BY-NC 2.0

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