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Allonsanfàn
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Love and Thunder: ma che fine ha fatto Thor?

Che cosa è successo a Thor? Reduci dall’ultimo, forse il più esorbitante tra i film della serie, Love and Thunder, si fatica a riconoscere la traiettoria che la Marvel ha deciso di dare a questo amatissimo supereroe.

La ricetta resta la stessa – e anche il regista, il talentuoso Taika Waititi – ma il risultato è un patchwork in cui il pathos del supereroe si smarrisce completamente, avvicinandosi ormai del tutto alle atmosfere scanzonate e surreali di quei Guardiani della Galassia che gli hanno dato ospitalità dopo il capitolo con gli Avengers.

Ma andiamo con ordine e proviamo a fare un passo indietro, al film precedente della serie, quel Thor: Ragnarok che è stato definito dalla critica – e non possiamo che essere d’accordo – come il Marvel più divertente di sempre.

In quel film, Waititi aveva trovato una straordinaria quadratura del cerchio: c’era molta ironia, c’erano momenti di autentica comicità, ma l’insieme non disincarnava la statura epica di Thor. Forse, l’idea che il dio del tuono abbia obiettivamente un lato buffo, che sia un po’ goffo e timido, e che su questo sia decisivo lavorare, ha preso il sopravvento nella sceneggiatura: di fatto, in Love and Thunder la trasformazione a fumetto del protagonista è completa (persino il costume da supereroe pare sovradimensionato, plasticoso), e così la storia scivola su un equilibrio precario fatto di paradossi, anche emotivi.

Ci sono temi pesanti – la morte, su tutto – che s’infilano in una carrellata di gag che appaiono l’estremizzazione estenuata di Ragnarok. Al punto che pare quasi sprecato il confronto con un “cattivo” così magistrale, dolente e dostoevskiano, costruito da un egregio Christian Bale. Se da un lato Gorr, il macellatore degli dei, incarna l’uomo che si ribella al destino ineluttabile della morte, dall’altra c’è un Thor che si è obiettivamente perso, è diventato un cazzaro vichingo che subisce tutti gli eventi della sua vita immortale.

Nemmeno la “caduta degli dei”, che è il filo conduttore di Love and Thunder, riesce a dare un sapore di quest all’itinerario del nostro eroe: l’incontro con uno Zeus bolso e tamarro (Russel Crowe con i boccoli è davvero inguardabile!), che per enfatizzare i suoi divieti dice “No buono” (mi riservo di ascoltare la battuta in lingua originale), non è proprio brillante in termini di sceneggiatura. Infine, sul finale di Love and Thunder c’è una “guerra dei bambini” (evidentemente è un tema molto percorso dal regista, che è diventato famoso con Jojo Rabbit, un film sulla guerra vissuta e subita da un bambino) e lascia un certo disagio, forse anche per il tempo che stiamo vivendo.

Un’ultima parola merita la colonna sonora, perché Love and Thunder ha cercato (anche qui) di doppiare Ragnarok, ma perdendone la magia. Nel film del 2017 ricorre infatti Immigrant song dei Led Zeppelin, ed è uno di quei rari casi in cui davvero la musica fa la differenza, rende le scene un po’ aliene, sovrumane, offrendo un colore in più all’estetica dell’azione (c’è un passaggio sul finale di Ragnarok, proposto in slow motion, in cui Thor spicca un salto e gli avversari si addensano verso di lui, in una piramide ascendente che è la perfetta citazione de La zattera della medusa di Géricault).

In Love and Thunder abbiamo numerose scene con le canzoni dei Guns’N Roses. Bellissime, eh? Ma praticamente c’è tutto l’album distribuito qui e lì, e alla fine si perde il pathos e si batte il piedino al ritmo, nulla di più.

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