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Ethos: donne al bivio nei quartieri di Istanbul. Una serie tv differente

Elif Shafak ha scritto che Istanbul è una città femmina: sembra proprio vero, a guardare le protagoniste di quel complesso romanzo corale che è Ethos, serie turca targata Netflix che racconta di cinque donne che si incontrano, nonostante le rispettive barriere etniche e socioculturali, in un punto di mezzo delle loro esistenze.

La prima puntata è una seduta dalla psicoterapeuta, dove incontriamo Meryem – la protagonista assoluta della storia, con un carisma che inchioda puntata dopo puntata, nello sguardo della splendida attrice Öykü Karayel – e conosciamo Peri, la sua psicologa. Se Meryem è di estrazione povera (è stata inviata alla seduta dopo una visita ospedaliera), arriva dalla campagna, indossa il velo e appare totalmente sottomessa alle decisioni del fratello e dell’hodja, la figura religiosa del suo villaggio, Peri ha un profilo talmente alto borghese che potrebbe stare comodamente in qualsiasi salotto occidentale tra Parigi e l’Upper East Side, e disprezza profondamente la devozione e la bassa estrazione della sua paziente.

Defne Kayalar è Peri

Però, visto che il titolo originale della serie è Bir Başkadır ovvero, letteralmente, “qualcosa di differente” – è proprio qualcos’altro che dobbiamo aspettarci. La repulsione classista dell’una si trasformerà in modo sorprendente, nel corso delle puntate, mentre l’altra mostrerà un tasso di buon senso, autonomia di giudizio e autorealizzazione che nemmeno Jane Austen avrebbe potuto elaborare.

Meryem e Peri in effetti non sono le uniche donne che brillano, in questa trama che si svolge tra Beyoğlu e altri quartieri di Istanbul (a proposito: si era creata una tale venerazione, nel pubblico turco, per l’autobus numero 24 citato nella serie che il comune di Istanbul è stato costretto a spiegare attraverso Twitter che questa linea in realtà non esiste).

Ma torniamo alle altre protagoniste: c’è Gulbin, la cui origine curda rappresenta un drammatico fardello familiare; c’è Ruhiye, spezzata da qualcosa che è accaduto nel passato; c’è Hayrunnisa, la figlia dell’hodja che ascolta in cuffia musica tecno e rappresenta una contraddizione vivente.

Intorno a questa galleria di donne piene di bellezza e mistero ruotano figure maschili che stanno in un secondo piano narrativo ed è quasi naturale che sia cosìnon per abbozzate rivendicazioni femministe, come tanto goffamente Hollywood ci propina di questi ultimi tempi piuttosto perché hanno così tanto da raccontare che non possono essere lasciate in un angolo, sono loro ad avere in mano il lungo filo di questo racconto, che tiene tutto legato.

Ci sono passaggi, in Ethos, in cui gli ambienti vagamente anni Settanta e l’uso delle musiche popolari evocano il primo cinema di Pedro Almodóvar, con le sue donne (ancora!) e le sue atmosfere orgogliosamente spagnole e malinconiche.

E poi, parlando di musica, c’è la questione delle sigle di chiusura. Sono talmente belle e sempre diverse che arrivi a pregustarle puntata dopo puntata. L’icona è Ferdi Özbeğen, famoso cantante di origini armene, che fu una star in Turchia negli anni Ottanta di un genere melodico che aggiunge una nota rétro, un’atmosfera di nostalgia all’interno di questa storia, quasi come se il regista volesse ribadire che sì, la Turchia è bellissima ma complicata, è laicità estrema e devozione religiosa, è campagna brulla e bellissima e città brulicante, è sesso da una notte e amore per la vita, è una donna che cambia idea, è questa cosa qui, ma è anche qualcos’altro.

Nella foto grande, Öykü Karayel è Meryem  

 

 

 

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