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Allonsanfàn
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Reporters de guerre. Come si racconta una guerra?

«A questo punto dello spettacolo avrei voluto dirvi che siete degli stupidi a pensare che la guerra non investirà mai voi e il vostro Paese. Ma il regista non me lo permette, perché non vuole che vi offendiate». Le parole di Vedrana Božinović, ex giornalista bosniaca che seguì l’assedio di Sarajevo, cadono pesanti nel buio della sala del Piccolo Teatro di Milano, dove già da un’ora il pubblico rivive gli anni della guerra nei Balcani. Va in scena Reporters de guerre, prima opera di Sébastien Foucault, drammaturgo, regista, attore. Trent’anni dopo quel conflitto che esplose nel cuore dell’Europa, trent’anni dopo i massacri di Srebrenica e Tuzla, ecco la guerra farsi spettacolo e insieme ricerca sul racconto, i suoi limiti, ma anche la sua lotta contro indifferenza e oblio.

Ciò che accade sul palco ci riporta ai primi anni ’90, quando centinaia di giornalisti raggiunsero la Bosnia per seguire il conflitto. Ispirandosi ai reportage radiofonici realizzati da Françoise Wallemacq, allora corrispondente belga della RTBF, Sébastien Foucault dà vita a una performance teatrale che oscilla tra teatro e giornalismo, protagonisti la stessa Françoise Wallemacq, l’ex reporter bosniaca Vedrana Božinović che adesso è attrice, e anche Michel Villée, all’epoca addetto stampa di Medici Senza Frontiere Belgio, ora burattinaio. Françoise, Vedrana e Michel evocano ricordi personali, ripercorrono le testimonianze dei giornalisti locali e internazionali che documentarono la guerra, fanno ascoltare le esperienze di testimoni oculari che Françoise Wallemacq aveva intervistato all’epoca e che ha ritrovato trent’anni dopo. Riviviamo così le granate nelle piazze, i bombardamenti, i tanti morti (tra questi un bambino in braccio al padre), la fame.

«All’origine del progetto Reporters de guerre c’è un interrogativo etico ed estetico nato dal mio lavoro di questi ultimi dieci anni» ha spiegato Foucault. «Perché, e come, rappresentare il dolore altrui? Perché, e come, spiegare la violenza? Perché, e come, evocare dei ricordi di morte?». Spesso si accusano i reporter di guerra di appropriarsi del dolore degli altri «per strappar lacrime e creare l’illusione di un consenso, o semplicemente perché fa vendere di più». Quali che siano le motivazioni «si tratti di avventurieri in cerca di emozioni forti, di idealisti che si battono per una causa o di semplici giornalisti arrivati là quasi per caso, tutti lavorano come possono per contrastare l’indifferenza e l’oblio». Ma quando una guerra è finita, «un’altra le subentra molto velocemente. L’economia dell’attenzione costringe i giornalisti a focalizzarsi su nuove crisi. E nel giro di poco tempo solo qualche irriducibile e i familiari delle vittime continuano a lottare contro l’oblio. Perché l’oblio rende la perdita più crudele, dal momento che priva l’esistenza di ogni significato».

Così la domanda non può essere che una. Trent’anni dopo cosa resta a noi spettatori di quella guerra ora che un’altra guerra si sta combattendo alle porte di casa? La risposta è dura e vera: «Praticamente nulla. Dei vaghi cliché. Polvere».

Reporters de guerre di Sébastien Foucault, Julie Remacle et ensemble, drammaturgia Julie Remacle, regia Sébastien Foucault, con Françoise Wallemacq, Vedrana Božinović, Michel Villée.

credit foto in apertura: Francoise Robert

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