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Paolo Giordano, l’amore, la bomba e il fascino discreto della Tasmania

Un fisico thirty something, prestato alla scrittura, al giornalismo e sporadicamente all’insegnamento, si aggira con attenta cautela  tra le minacce d’Apocalisse che affliggono negli anni Dieci noi poveri mortali – le esecuzioni dell’Isis, il climate change, il riemerso (mai scomparso) pericolo nucleare – e così peregrinando mostra il disagio dell’ex ragazzo prodigio (o del ragazzo e stop), molto nerd e molto cool, il quale continua a sprecarsi, sognando a volte di abbandonare il troppo sapere e rifugiarsi nel limbo nell’incompetenza o magari di andare alla deriva come “esperto di nulla”. Sarebbe fin facile…

L’irrisolto protagonista di Tasmania (Einaudi), che forse è un alias confessionale dell’autore – ma questo poi non ha granché importanza: benché una volta venga indicato con la sigla P.G., si muove all’interno di un romanzo di trama non di un memoir – il protagonista, dicevo, ci svela la sua sfera privata alla luce di un presunto fallimento: lui e la moglie Lorenza, più grande di dieci anni, non sono riusciti a procreare, e adesso, anche sessualmente, vivono in stallo. Sono vittime di un disamore che li porta a cercare vacanze in pseudo paradisi esotici e persino un esperimento sessuale con un’altra coppia – due olandesi in pausa, guarda caso, dall’accudimento di una figlia malata. Non cito lo “scambio” per particolare pruderie, ma perché, lasciato sul momento all’insignificanza di un azzardo improvvisato, avrà bisogno di essere spiegato per bene in cinque righe fondamentali più di duecento pagine dopo, illuminando a posteriori anche il personaggio di Lorenza.

Comunque. Proprio il desiderio di paternità, anche scientifico-letteraria – con il classico quesito “perché scrivere?” cui si avrà una risposta solo nell’ultima frase del testo – è il leitmotiv di Tasmania e si offre in varie modalità, molto o poco chiare a chi le racconta. Il protagonista più che un patrigno è il fratello maggiore del figlio adolescente di Lorenza, nato da una precedente relazione; s’improvvisa giudice nella diatriba legale tra due amici che stanno divorziando, dovendo testimoniare sulla gestione di un bambino; durante un seminario a Trieste, si comporta in modo protettivo ma ambiguo con uno studente esagitato, rischiosamente vittima delle proprie ricerche.

Mentre si sposta tra la Torino delle origini, la Roma della quotidianità e l’avventurosa Parigi di vecchi e nuovi sodali, il giovane – che significativamente continua a definirsi non “uomo” ma “ragazzo” – si dedica a un saggio storico/scientifico sull’atomica, tema a suo modo ideale per chi è attratto, per mestiere e per carattere, da tutto ciò che può distruggere (sul serio e tra poco) il mondo. Il che permette a Giordano di rimpolpare il romanzo/confessione con capitoli che trascendono la visuale del singolo, per esempio quello dedicato alle vittime ignare e stupite di quel giorno terribile a Nagasaki.

Tra tanti personaggi poco cresciuti, che vivono tra distacco e morbosità l’ansia del presente, coltivata con filmati shock scovati sul web e con lo studio di elaborati piani di fuga – la Tasmania del titolo è un paradossale e in fondo piccolo borghese luogo ideale – compare un quasi padre, anzi un quasi Nobel. Lo scostante Jacopo Novelli, star della climatologia, funge da provvisorio mentore, almeno finché non finisce triturato da una polemica sessista da lui stesso scatenata durante un Ted. A conferma, questa, che il giovane (ex?) fisico deve confrontarsi anche con la sociologia del sesso, valutando le oscillazioni del gender balance e istruendoci sul gaslighting.

Qua e là, compare una domanda inevitabile: “Per quanto tempo ancora avrei resistito come scrittore raccontando solo di ambizioni e di esperienze mancate? Per poter scrivere non bisognava prima di tutto, forsennatamente, vivere?”. Detto altrimenti: possibile che “la solitudine dei numeri primi” dell’abbagliante esordio di Giordano sia diventata la solitudine improduttiva di un atipico scienziato che caracolla quasi banalmente sull’“orizzonte degli eventi”? E quel forsennatamente inquadrato e amplificato tra due virgole non è il primo timido passo verso un vero ignoto anche letterario? E ancora, tra parentesi: forse non è bastato a Giordano stesso realizzarsi come scrittore di “linee d’ombra”, allora e ora, e poi con un romanzo puro e americano (alla Franzen) quale era l’ambizioso Divorare il cielo (Einaudi 2018) o decrittare lucidamente per noi, tra i primi, la pandemia negli articoli sul Corriere della Sera.

Comunque. Giordano qui racconta tutto con un linguaggio piano, senza scarti di ritmo o sussulti linguistici, fino al rischio di rifugiarsi o di finire nella monotonia. Il suo non è il celebre lessico da bar romano di molta narrativa nostrana (e di quella dei memoir in primis), ma un italiano pulito, nobilmente grigio e giornalistico, accordato alla disperazione interiore del protagonista che vuol essere tutto fuorché plateale. Cioè: praticare del giornalismo interiore preserva lo scrittore torinese da ogni patetismo poetico ma ne limita il campo espressivo; e poi: se è vero che si scrive di quello che ci fa piangere, a volte è superfluo specificare con umile sicumera da cronista la composizione chimica delle lacrime. Anche perché la naïveté sentimentale del personaggio di Giordano risulta a tratti sbalorditiva, rispetto al suo sapere scientifico su ciò che lo circonda. Non chiediamo all’autore una laurea in neuroscienze, ma forse, almeno, di sbrigarsela con i fondamentali della psicoanalisi. Proprio quando rivolge lo sguardo su se stesso, distogliendolo dalle fantascientifiche nuvole indagate da Novelli, Giordano si accontenta di un esistenzialismo basic, da vulgata sentimentale, appena illuminato da un pensiero morale sulla società di privilegiati votati alla catastrofe in cui P.G. è conscio di vivere. Detto questo, il romanzo si legge bene e se pure voi siete in una “linea d’ombra” persino d’un fiato.

Credit: P1003103” by ESOF2020 TRIESTE is licensed under CC BY-SA 2.0.

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