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Io, Jack e Dio. La libertà secondo Andrea De Carlo

A Lungamira sull’Adriatico, ci sono due villette liberty, dove ogni agosto si rinnova l’incontro tra una ragazzina italiana e un ragazzino inglese per parte di padre: incontro che dall’adolescenza si ripete, diventa una sorta di check up dell’anima, ogni estate, contemplando un’amicizia che sembra imprudente e sconveniente trasformare in amore. Fino alla scomparsa per sette anni di lui – una misura di tempo simbolica, una cosa tipo sventura per uno specchio rotto – con i telefoni che non rispondono e i social network disertati, insomma: il vuoto dell’abbandono.

Sette anni dopo, a sorpresa, Mila ritrova Jack, in circostanze drammatiche, al funerale del fidanzato Brusko, improbabile rocker italico, narcisista e piagnone, che l’ha coinvolta in un terribile incidente di deltaplano. E Jack è cambiato, ha in serbo per lei un’incredibile e inattesa trasformazione: è il frate che dall’altare ricorda, a modo suo, lo scomparso.

Il romanzo di De Carlo Io, Jack e Dio (La Nave di Teseo) parte o riparte da qui. Mila si ritroverà invitata da Jack in un convento riattato, tra pochi monaci provenienti dai quattro angoli del mondo – “frati e fratesse” guidati dal vegliardo carismatico fra Maximin – che in incontri pubblici shockano i credenti del circondario, rifanno per intero la storia delle religioni, decostruendole e denunciando dati di realtà incontestabili: per esempio, ci avete fatto caso? Un buon pastore prima porta a spasso il suo gregge, poi in genere lo tosa e se lo mangia pure…

Intanto si evidenzia la nuova scommessa di De Carlo: dove intende portare Mila – di cui fin dall’inizio prende il punto di vista – e insieme a lei chi, voltando le pagine, gli dà credito? La domanda non ha risposta immediata e a lungo il romanzo rimane aperto a più di una suggestione e a più di una pista. È un piacere e solo a tratti una fatica seguirlo nel suo farsi, retrocedendo se c’è bisogno fino all’origine caotica del mondo: basta non covare i pregiudizi o i preconcetti dei lungamiresi, sconvolti tanto dalle parole dei religiosi quanto dai presunti miracoli di Jack e compagnia.

Andrea De Carlo

De Carlo (Milano 1952) è uno scrittore di sentimenti, del loro formarsi e sfarsi, e di adolescenze innocenti e difficili, di giovinezze cui ha accordato il meglio delle pagine dei suoi primi romanzi. Da tempo lavora su plot elaborati e sofisticati – penso al voluminoso e ambizioso Villa Metaphora (prima edizione Bompiani 2012) ma anche al recente, spettacolare Il teatro dei sogni (La Nave di Teseo 2020) – che, al di là dell’intreccio, si connettono con la sincerità originaria della sua ispirazione.

De Carlo segue i suoi schemi e persino i suoi tic linguistici, piegando le frasi alla necessità del racconto: il bello scrivere non è mai stato un suo problema, né l’accreditarsi in una qualche tradizione letteraria, essendo più preoccupato di rendere il suo sguardo sulle cose. Costruisce  romanzi, non autofiction, dall’esordio con Treno di panna (Einaudi 1981, vedi la citatissima quarta di copertina di Italo Calvino), ingegnandosi in qualche modo a trovare, tra le mistificazioni, una via di libertà – è questo il leitmotiv della sua opera. Io, Jack e Dio (La Nave di Teseo) richiama per il tema religioso Uto (Bompiani 1995) se non Yucatan (Bompiani 1986) e, nelle lezioni tenute dai frati, per la discorsività didascalica, forse anche Pura vita (Mondadori 2001).

Comunque. De Carlo è rimasto, rispetto agli obblighi e ai riti del sociale, simile al suo antico alter ego Giovanni Maimeri, quello che faceva il cameriere stile Buster Keaton in Treno di panna, ben ventuno libri fa. Keaton nel nuovo romanzo presta il nome a un gatto ed è citato come il protagonista di infinite fughe dai prepotenti del mondo (e qui anche dai prepotenti dell’altro mondo).

Il disegno di copertina di De Carlo, attribuito a Mila nel romanzo, finisce su una T-shirt di Jack. Tutti i libri citati in prima edizione sono stati riediti da La Nave di Teseo

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