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Allonsanfàn
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J.D. Salinger e il viaggio dell’innocente Holden

Gennaio è un mese salingeriano. Il primo gennaio del 1919 nasceva a New York  J.D., che se ne sarebbe andato a fine mese, più precisamente il 27 gennaio, nel 2010 a Cornish. Invernale è anche la domanda che si fa nel suo romanzo più famoso il “vecchio” Holden Caulfield: “Io abito a New York, e stavo pensando al laghetto di Central Park, quello vicino a Central Park South. Chissà se arrivando a casa l’avrei trovato ghiacciato, e se sì, chissà dov’erano andate le anatre” (traduzione Matteo Colombo, Einaudi 2014).

Comprai Il giovane Holden tantissimi anni fa, credo nel 1973. Per prima cosa mi colpì che il volumetto degli Struzzi non aveva foto o disegni in copertina ma solo un poco invogliante quadrato azzurro – J.D. Salinger imponeva cover senza illustrazioni. Per seconda cosa, mi incagliai un po’ diffidente sulla faccenda del titolo diverso dall’originale: The catcher in the rye, che si trasforma ne Il giovane Holden (parente di Toerless?) e non in un altrimenti assurdo “terzino nella grappa” – la notarella esplicativa, non firmata, era di Italo Calvino. Per terzo, riflettei perplesso sulla traduzione slangata (ma molto inventata, quindi letteraria) che esordiva con quell’ “infanzia schifa”.

Poi tutto filò liscio, era impossibile non seguire Holden Caulfield da Pencey a New York nella sua struggente avventura. Essendo il motore del romanzo “…il punto di vista innocente e privo di malizia di Holden a fronte dei fatti della vita, tremendamente complicati e spesso amorali…”, come scrisse S. N. Behrman, che recensì The catcher in the rye sul New Yorker il 4 agosto 1951, sotto il significativo titolo The vision of the innocent.

Cinquant’anni dopo, sempre sul New Yorker, Louis Menand spiegava in Holden at fifty perché un genitore americano non ha nulla in contrario che il libro venga letto dai figli; anzi, porge lui per primo ai rampolli la sua vecchia copia di The catcher in the rye… Come a dire: rimanendo un feticcio consolatorio della perduta purezza adolescenziale, Holden non è davvero pericoloso per lo status quo. Ne viene del resto forzatamente inglobato quando J.D. Salinger verga la parola fine, dopo l’invito del ragazzo a non raccontare mai niente a nessuno, per non essere travolti dalla nostalgia. Di Caulfield non sentiremo più parlare – a meno che lo scrittore fantasma nelle misteriose carte non ne abbia scritto ancora.

D’accordo, si può vederlo a occhio nudo che Holden non è un eversore organizzato, si capisce da come perde le mazze da baseball nel metro… Ma pure l’occhio di Holden è nudo (da ogni sovrastruttura), è l’occhio di chi vede le cose su cui gli adulti (o più in generale gli altri?) sono ora ciechi, Holden si fa domande che nessuno si fa (più?). Quella delle anatre del laghetto è soltanto la più celebre. Aprite pure il libro a caso…

La prima edizione (illustrata) di Holden

Non importa che traduzione avete. Anzi, usate quella storica, in fondo io avrei tenuto buona la versione di Adriana Motti, una signora gentile e geniale, che fu compagna di Giacomo Debenedetti: in un’intervista del 1999 su Diario  si mostrò divertita ricordando che nel 1996 Baricco e Veronesi (i nostri più famosi fans di Caulfield, il primo ne ha fatto addirittura un marchio registrato) si erano schierati per una nuova traduzione. Non mi è mai capitata tra le mani, invece, oltre a quella di Matteo Colombo (Supercoralli), la prima versione italiana, di Jacopo Darca, che uscì nel 1952 come Vita da uomo per l’editore Casini.

Illustrazione: Time Inc., by Robert Vickrey

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