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Allonsanfàn
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Viaggi. L’Albania originale, gran finale

Ma perché il turismo euro dotato e dollaroso e sterlinante dovrebbe optare per l’Albania, che poi sarebbe Albània con accento sulla seconda, mentre l’economia locale si sostiene con trecento euro mensili e lorto dietro casa e improvvisa B&B e girarrosti a bordo strada e in paese più delle banane che nascondono altri carichi dall’America Latina ricaricano le arance come in Vaticano le acque minerali per il giubileo? Perché dovrebbe optare per i caraibi albanesi se si può permettere Saint Barth o perlomeno Los Roques? Per una pretesa genuina autenticità perduta per sempre ai tropici?

A Ksamil, il ragazzo toscano di origini albanesi che torna ogni estate e alloggia accanto a me nell’idea di motel albanese, ai margini di un parco giochi con mega schermo sul campionato serbo e ristorante all’aperto ma arredato sui principi feng shui come un loft a Manhattan, quando gli domando degli onnipresenti SUV neri come scarafaggi di Borroughs mi chiede se ho mai sentito parlare di Lazarat mentre lamenta d’essere stato fermato, lui, in quanto targato italiano, dalla stradale per eccesso di velocità e conseguente ritiro della patente se non provvede a saldare l’equivalente di trecento euro. “Io me ne intendo: solo i cerchi in lega costano cinquemila euro”.

Nel carnaio ferragostiano emergono allora con quei corpi irrimediabilmente tozzi le classi sociali post comuniste tra i materassini a forma di delfino squalo coccodrillo cigno rosa fetta di torta tartaruga e unicorno e i salvagente alla Oldenburg a copertone oppure anguria o donuts con iconico morso incluso ma non di locali byrek o di gjevrek che le frittelle faranno povertà (ma andare fino a Bora Bora sul pedalò carenato da maggiolino sarà coatto o fancy se per andare a Tongo Island è necessaria una barca?) quando puoi srotolare l’asciugamano brandizzato Louis Vuitton in prima fila sulla palafitta con tenda con tetto in foglia di banano essiccata e cestello per lo sciampagnino e se vuoi proprio esagerare rete a filo d’acqua per pennicare con lo slippino capsule collection sdraiati con ceretta regolamentare sul pelo dell’onda sempre si riesca a disconnettersi dalla techno ossessiva del publiphono che conduce una sua privata battaglia con l’isopolifonia che mixa le radio dei Pizza Zone, i crooner folcloristici dei ristoranti, il latino americano dei club, l’elettronica dei lounge bar e i dj set degli schiuma party. La toponomastica alberghiera paga il suo tributo all’Italia causando involontari salti spazio temporali: Sapore di mare, Ciao, Bella Vista, Panorama, Dolce Estate, Sole Mare, Vista Mare, Piazza, Famiglia, Fratelli… che potrebbero essere tutti nomi adatti ai talk show sulla politica di casa nostra o ai nuovi movimenti dell’antipolitica che finge di non avere di mira la poltrona almeno quella gonfiabile che se non la vita facilita il guado per chi vuole andare alle Tre isole a piedi con lo zainetto in testa e i sandali in mano… al tramonto lo scorcio dell’orizzonte ha davvero qualcosa di caraibico anche se dopo una giornata a Ksamil appare posticcio come quei poster che si attaccavano con i listelli nelle camerette degli adolescenti degli anni Settanta o una vecchia cover di un album degli America.

Restano da censire le baie ma la Citigo montenegrina da soluzione diventa un problema perché i lidi sono selezionati sotto il sole implacabile da rigidi doorman in completo black e occhiali scuri, più agenti del KGB da film di James Bond che selezionatori di moda come al Berghain, e se non hai prenotato, sull’app puntualizzano come fossi un troglodita digitale, mi dicono non posso accedere, però entrano i SUV neri in fila dietro e senza tante complicazioni mentre faccio inversione sulla scogliera e al limite quelli più gentili mi invitano a prendere un caffè, pagando, previa promessa di smammare al più presto. Per arginare la massa di quei corpi distesi fianco a fianco come opliti a difesa della costa, impossibilitati dall’ordine marziale a spostare il lettino o l’ombrellone a scudo del sole, non resta che arrampicarsi sullo scoglio antistante e raccomandare l’anima al King Lizard.

È kitsch allora? Certo, ma un kitsch talmente palese che non puoi non perdonarlo perché l’Albània sta a fianco, non sotto o sopra per stratificazione calcarea o culturale, all’Albania: i templi corinzi alle ville pacchiane, il castello di Ali Pascia allo Splash Water Park gonfiabile, le spiagge di sassolini alla sabbia posticcia, lui con moglie e figlia in vacanza a lui con moglie e figlia tatuate identiche sulla scapola sinistra, il razionalismo fascista del palazzo presidenziale di Tirana all’Hotel Colombo di Berat che si atteggia a Campidoglio di Washington DC, i bunker alle piscine (ma un bunker rivisitato in BunkArt contestualizza la funzione originaria o la decontestualizza armonizzandone gli echi quasi fosse un’installazione di Cassina per la Design Week nel caveau del rinnovato palazzo Broggi tra sedute di Mackintosh, divani Maralunga e radio di cristallo disassemblate?), le baie selvagge dove si accede appesi a una corda precaria e le spiagge ombrellate fitte fino al mare, i balli in girotondo alla dance music, le influencer atteggiate sulle scalinate delle discoteche alle vecchiette che offrono dohma me qera (stanze in affitto) sonnecchiando su sedie a lato della strada, il lounge club Veranda by Apollonia alle kullë, le case torri ottomane di Argirocastro, il manichino con costume tradizionale al quale hanno pudicamente accartocciato i seni scoperti (o piuttosto reso fluido come impone il Nuovo Verbo Globale a sostituire il comunista nel trinariciuto fantoccio negro ebreo delle minoranze da tutelare?) al décolleté generoso sui manifesti della diva locale Rovena Stefa, pizze di gomma ai gustosi byrek, e se vuoi una limonata locale non ci credono che non prendi piuttosto la Fanta, tutto sfuma senza soluzione di continuità come le statali a due corsie che diventano autostrade e poi ritornano statali, con accelerazioni e frenate improvvise, senza un avviso senza un cartello.

Qual è l’autentica Albania che tutti cercano perché autentica e quindi inevitabilmente sarà presto meta di moda con destino l’inautenticità? Sarà più tipica e pittoresca la famiglia che ti accoglie con i petulla come uno di casa o il bagnino che ti fa il conto di ombrellone e lettino a seconda di quale lingua parli? Il signore che mi offre i fichi del suo giardino o la bottegaia che in italiano pretende trenta denari per un souvenir al mercato turistico di Krujë, ruvida come le thailandesi che non mercanteggiano più al Chatuchak e al posto del sorriso sgranano occhi di tigre appena capito di essere benestanti più loro degli europei con le pezze al culo? Il cimitero degli ombrelloni dismessi provoca lo stesso brivido di tivù verità che a Celati suggeriva la vista della squallida pianura emiliana se paragonata all’illusione sberluccicante delle buone domeniche su Canale 5. E quella utilitaria, all’uscita da un tornante sulla mia carreggiata, è un’istantanea di una famiglia italiana ai tempi del Sorpasso o sono albanesi ebbri di libertà, del genere che lanciano pacchetti di sigarette e patatine dai finestrini visto che i campi di rieducazione non sono più una minaccia?

A Berat, le damigelle di una coppia di sposi sorridono nei lunghi vestiti azzurri mentre i futuri marito e moglie compongono il book celebrativo sul ponte del fiume Osum nelle stesse pose che i fotografi richiedono ai cinesi in piazza Duomo, nella città vecchia puoi scegliere se mangiare alla cucina di mamma mentre il figlio si professa romanista sfegatato e fan ovvio di Totti e la sera dopo scoprire che il free jazz d’atmosfera e le cantate barocche servivano a coprire, di là dal muro confinante, il giardino segreto del ristoratore a fianco con simpatie berlusconiane che intona Nicola Di Bari accompagnandosi con la chitarra.

La sintesi la si trova inattesa a Gjirokastër dove l’ospite del bed&breakfast a conduzione familiare, col negozio di frutta e verdura nel garage sottostante, mi accompagna con la sua a recuperare l’auto trovandomi un parcheggio più consono e ci tiene a offrirmi una birretta in un baretto con vista sulla vallata anche se riusciamo a comunicare soltanto a gesti mentre a Casa Skenduli della coppia che accompagna a piccoli gruppi i turisti in visita nonostante lei parli un corretto italiano ci si reputa fortunati se in sorte tocca il divertente grammelot europeo dell’anziano proprietario.

Ma di nuovo, nella ribollente Tirana dove basta un acquazzone e la pavimentazione di piazza Skanderbeg che nel concept degli architetti belgi è irrorata da fontane per far risplendere i colori delle sue pietre diventa un acquitrino naturale, è autentica la ragazza in tailleur beige per niente armocromico ma con bicchierone di caffè da passeggio alla moda di Manhattan? C’è da credere alla Moretti che pubblicizza con claim in italiano d’essere “L’autentica” birra o si può “godere dei semplici piaceri della vita” sorseggiando una Elbar made in Albania magari a uno degli infighettati locali alla moda del Blloku che da quartiere della nomenclatura albanese è diventato il luogo della movida dove la gioventù bene ostenta invece signature cocktail e toast all’avocado? La panoramica sulla capitale sarà migliore dal rooftop degli alberghi del centro o dalle feritoie di cemento grezzo dei bunker sotto il livello stradale?

La gentrificazione del mercato porta al moltiplicarsi dei ristorantini carini per i turisti tutto attorno ma al contempo rende pittoreschi i proprietari delle bancarelle e antistoriche le botteghe delle vie adiacenti con i vetri sudici e la merce accatastata per il consumo locale. E i murales sulle facciate delle case sovietiche allora sono artistici o solo un maquillage nemmeno troppo riuscito?

Se i bunker militari sono rigenerati come luoghi artistici e divengono Bunk’Art si ripassa la storia o è un’installazione dove l’orrore si mischia al ludico e la visita diviene un intermezzo piacevole per ammazzare il tempo? O se come dicono gli albanesi trapiantati in Italia che ci tornano ogni anno con le famiglie è un modo per ricordare quando si stava peggio il rischio non è quello di accettare acriticamente un’altra idea di propaganda? Si stava meglio quando si stava peggio e sotto Hoxha l’Albania aveva raggiunto l’autosufficienza o è meglio rimanere in balia di un mercato che se al dunque privilegia pochi lascia liberi gli altri di rifarsi una vita ma da un’altra parte? A Himarë, la sorella della titolare dell’hotel a conduzione familiare che ancora ti offre una bottiglietta d’acqua mentre in Italia te la metterebbero in conto a tre volte il prezzo quando torni, assetato, dalla sottostante baia praticamente deserta perché per arrivarci devi scendere da un dirupo (lo stesso che il ragazzo autistico a cui manca solo il banjo fa in meno di dieci secondi conoscendola pezzo a pezzo e restando poi a osservare i rari bagnanti acquattato su una roccia), lei che ora vive dalle parti di piazza Tirana, si lamenta d’aver trovato a Milano non gli italiani ma gli africani: “E comunque in Italia non ci va più nessuno, non c’è lavoro”, chiudendo in un secondo ogni falso dibattito da talk show sull’immigrazione.

Il titolare della Guest House a Tirana si illumina quando gli dico che riparto per Podgorica e gli nomino il brutalismo, mi dice che l’ha studiato all’Università. È figlio di albanesi cresciuto a Washington e la sua ragazza è americana. L’America resta sempre il posto dove pensi di avere realizzato te stesso. Ma l’appartenenza resta il luogo dove la cambi la vita.

Cercando un accesso sulla sponda orientale del lago Scutari per amore di avventura prima di rinunciare e passare di nuovo il confine, mi fermo a un baretto che forse nemmeno vende pomodori verdi fritti e quando chiedo alla coppia mamma e figlia se le posso fotografare sotto la tenda a fiori stinta dal sole, alla figlia che me ne chiede ragione rispondo d’istinto perché sono originali. “Originali” risponde lei ridendo sorpresa e lo traduce alla anziana madre seduta all’ombra che con gli occhi domanda chi mai sia io, e spuntato da dove. “Originali”, ripete e continua a ridere.

Tutte le foto sono di Gabriele Nava e sono state scattate con il Samsung Galaxy Z Flip 3 5G. Qui i suoi video. La prima parte del reportage, qui

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