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Allonsanfàn
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Davide Piacenza. La correzione del mondo e il falso valore dell’inclusività

Ma siamo davvero sicuri che l’Internet dei contenuti sia una copia della biblioteca borgesiana a cui lo paragona Davide Piacenza (La correzione del mondo, Einaudi Stile Libero Extra, pp. 320) nel suo meritorio tentativo di offrirne da giornalista una summa quanto mai spericolata nell’impegno randomico e rabdomantico di fare luce nel web per quanto solo in quello meno dark, posto non sia invece questo alla mercé di tutti ma solo in quanto merce proprio per questo più oscuro?

La premessa infatti rischia di determinare, come le fondamenta di una sbilenca torre di Babele, l’intera speculazione che segue affrontando onnicomprensivamente tutte le recenti, giornalistiche e non, etichettecancel culture, wokeness, #metoo, friday for future, post-truth, shitstorm, snowflake, brand identity, othering… – che via via hanno cercato di inscatolare, o forse indirizzare, gli emergenti rigurgiti social che sopra quella torre si prefiggono al dunque di rappresentare, verrebbe da dire creare, un certo tipo di società. Perché se il web fosse davvero una biblioteca nemmeno si porrebbe il problema di giudicare chi e cosa sta dalla parte giusta essendo ogni scelta demandata al fruitore che fondamentalmente si fa la cultura sua (il problema semmai sarebbe quello di capire se davvero una biblioteca è la summa del sapere umano e non una sua preventiva selezione: società chiusa o aperta?) mentre in questa ricostruzione da subito è chiara quale sia la posizione dell’autore e da quale parte dei conflitti si posizioni mentre compie la sua ricognizione, perseguendo con inferenza induttiva una lunga serie di particolari a sostegno della sua tesi, ognuno si siederebbe in silenzio rispettoso o semplicemente ignaro o poco interessato alle scelte altrui, dovendo già da sé districarsi nel garbuglio del sapere, tra verità presunte e subdole menzogne fake, rimandando il confronto a uno spazio altro (prima molto prima del web però dove, nell’agorà?).

Il problema invece qui pare sia il fatto che si moltiplichino non solo i saperi (e le opinioni) ma che questi trovino terreno fertile nel confronto che più spesso diviene scontro: la culture war impazza tra papaveri e papere e il chiasso dirompe nel Piccolo Mondo Nuovo secondo l’antico motto del divide et impera a beneficio di chi lo alimenta. Ma non si sta seguendo pedissequamente lo schema dei talk televisivi e la cattiva maestra al dunque fa stupidi discepoli anche fuori della sua cornice sempre più sottile scordandosi questi d’essere ospiti di piattaforme che si fanno da sé le proprie regole e nelle quali puoi essere bannato – ma pure bloccare, da vero coniglio per nulla pseudo voltairiano innamorato della propria monade – e poi riammesso se cambia il loro tycoon?

Ma ancora che questo sia un fatto solamente negativo non inficia la stessa presunta sbandierata democraticità del web dove ognuno non solo ha accesso (coi limiti della tassa di ingresso, ricordiamolo a beneficio di chi dà per scontato che il suo esagono borgesiano sia l’intero globo) ma si sente libero di esprimere il proprio pensiero anche illudendosi d’essere celato dietro un nickname? È davvero discutibile lo scontro, sempre non sia ad arte sobillato per mere questioni di marketing o peggio di controllo sociale, o invece per quanto spesso al limite la polemica può essere utile per uscire dalla propria bolla e affrontare dialetticamente l’interlocutore, quasi il web fosse allora non biblioteca ma ring per temprare il pensiero?

Sblocco un ricordo: a un corso di quelli chiamati di aggiornamento per giornalisti disinformati, al quale sono obbligati anche quelli informati che perciò vorrebbero stare alla larga non solo dai corsi ma dal giornalismo in toto per come è ridotto, il tutor domandò alla classe degli aggiornandi quale degli ambienti casalinghi fosse l’equivalente del web. Memore della definizione di Carmelo Bene che vi intravedeva – si era agli albori – il Grande Immondezzaio risposi il cestino dell’indifferenziata, ovvio suscitando il mugugno dei colleghi convinti di avere sul web l’occasione dopo aver distrutto la carta stampata di rifarsi una verginità, politicamente sempre corretta, su Internet, subito sentitisi sminuiti dal non aver accesso al salotto buono dell’informazione. E mancando così pure in punta di tastiera quella seconda occasione che il caso aveva riservato loro a un passo dall’essere definitivamente messi all’angolo dall’esercito dei barbari nascosti dietro l’angolo e presto rinominati influencer poi metamorfizzati in content creator. Lo dico da filosofo e da scrittore, perciò, e non da giornalista, semplicemente perché il giornalista non ha libertà di parola ma la libertà di parola del suo editore o dei partiti quando addirittura come sfuggì alla celebre inviata tivù non è strumento al servizio del potere (“ma se non indirizziamo l’opinione, noi che ci stiamo a fare?”): a chi giova questa reiterata difesa del politicamente corretto se il corretto è soltanto il giusto stabilito da una fazione politica e appoggiato dall’industria culturale mainstream posto che la società politicamente corretta sia già per questo implicitamente lontana dal caos? L’inclusività delle minoranze sempre considerate come anime deboli in attesa del salvatore responsabile che ne riconosca il valore e non entità autodeterminantesi non nasconde allora soltanto il desiderio di uniformarle ai desiderata della maggioranza? Uno Spider-Man nero portoricano in un multiverso brandizzato Sony di Uomini Ragno super attenti all’inclusività ha solo il super potere di scegliere tra le Jordan e le Converse. Una sirenetta nera è la solita minestra danese rivenduta come nuova a un pubblico altro non una leggenda africana sconosciuta alla white culture. Una minoranza riconosciuta e inclusa nella maggioranza di quale pensiero altro può essere veicolo? Siamo sicuri che l’inclusività sia un valore assoluto se il valore è quello stabilito dalla maggioranza (o da una minoranza che si pretende tale) ed essere inclusi non sia al dunque mera concessione da un lato e dall’altro non affermazione di diversità ma solo adattamento e furbizia? Che la religione del politicamente corretto non discrimini a sua volta gli eretici? Che affermare apoditticamente che quel mondo sia migliore sia solo perché assomiglia di più alla nostra idea di migliore? Che la spinta centripeta verso un nucleo prestabilito sia preferibile alle spinte centrifughe che ci riconnettono al sapere periferico? A una indifferenziata inclusione, preferisco i marosi dell’esclusione, e uno che scrive sul suo profilo social a quale genere appartiene è un cretino sempre (ovviamente si dirà lo stesso di chi si considera persona prima che genere determinato dal fare l’amore come gli va).

Davide Piacenza

Non di biblioteca quindi trattasi, ma piuttosto più modestamente di rumoroso bar per altro assai simile a quello di Star Wars, dove si può anche trovare la culture che ci rappresenta ma per lo più si finisce col combattere delle irrilevanti guerre dialettiche – e il ricorso alla maieutica non ci salva dal finire coperti da scherno e insulti risolutori – quando non sono, come bene precisa Davide Piacenza, artefatte a partire da un algoritmo che crea antagonismi su misura per aumentare l’engagement. Perciò come sempre non è utile lamentarsi né dell’ambiente né delle regole ma è buona norma entrarvi preparati per non scambiare l’ennesima grotta platonica per la verità assoluta o rinunciare a cercare pepite d’oro in una discarica per timore d’essere bullizzati. Ciò che si vanta d’essere politicamente corretto, e che gode del sostegno dell’autore, non è valore universale altrimenti non avrebbe senso sostenerlo. Sarebbe allora cosa giusta, ed educativa, frequentare gli ambienti ostili del web più che la cerchia della propria comfort zone, così per semplice propedeutica. Siamo infatti sicuri che l’idea di un’umanità condivisa non sia la peggiore delle distopie? Non è meglio al di fuori della cerchia dei soliti fantocci promossi dalla meritocrazia parziale ricominciare a surfare come ai primordi del web che tanto somigliavano al periodo d’oro delle radio private prima che finissero cannibalizzate dal marketing avendo l’illusione almeno di fare un incontro inatteso e forse anche fortunato? Qual è al dunque la rilevanza del web (che i gazzettieri in difesa accorpano indistinto con formule di comodo – “il web insorge, si indigna, reclama…” – rilanciandone le istanze per un malinteso up to date come certi anziani che fanno lo Zumba e la dieta intermittente) anche in confronto a quella dei giornali walking dead che rispondono alla crisi dei lettori abbassando ulteriormente, programmatici, il livello (dei libri lasciamo stare!) non avendo da proporre personalità capaci di avere un seguito e nemmeno di acquistarsi un bot di follower? Il politicamente corretto ha il suo rovescio nel piagnisteo sempre più diffuso e nasconde solo il desiderio di uniformarsi, nessuno sfugge alla discriminazione e basta aver fatto un colloquio di lavoro o averla buttata a una ragazza con asterisco o meno per saperlo. Al bar almeno si ordina da bere e nessuno ti può invitare con alterigia travestita da scarso sarcasmo a posare il fiasco (ci si va per quello, la discussione è un optional). Il mare è periglioso ma ricordiamoci che ognuno la sua scialuppa per salvarsi la costruisce da sé, accanto allo smartphone magari portandosi un mattone cartaceo come bussola per riapprezzare il valore della riflessione almeno quando c’è bonaccia, avendo sempre in orrore la terrificante calma piatta, e per allenare tra i filtri dell’ipocrisia social una lingua adatta per il vaffanculo (sia detto in a good way, per carità).

Nulla è più riprovevole d’essere figli del proprio tempo.

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