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Allonsanfàn
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Raymond Chandler. Un lungo sogno per Il lungo addio

La prima volta che l’ho visto, Terry Lennox era ubriaco su una Rolls-Royce Silver Wraith davanti alla terrazza del Dancers. Il parcheggiatore era andato a recuperare l’auto e gli stava tenendo aperta la portiera perché il piede sinistro gli penzolava ancora all’esterno, come se lui non sapesse neanche più di averlo. La faccia era giovane, ma i capelli erano bianchi come ossa. Dagli occhi si capiva che era pieno fino all’orlo, ma per il resto pareva il classico bel giovanotto in completo da sera…

Ecco che in un incipit di vita notturna losangelena compare Terry Lennox, il giovanotto destinato alla scomparsa cui non si rassegna il private eye Philip Marlowe, l’occhio attraverso cui vediamo questa scena-presagio. Lennox è infatti descritto come un personaggio dal precario aggancio alla vita. Rimandano alla morte la perdita di controllo sul corpo (il piede che penzola dalla portiera), la quasi incoscienza da alcol o da stupefacenti, i capelli che sono incongruamente candidi non come il latte ma come ossa. Il lungo addio di Raymond Chandler può cominciare.

Lawrence Osborne parlando di Only to Sleep (Hogarth 2018), la sua apocrifa Philip Marlowe novel, spiegava che le trame intricate e persino astruse dei romanzi di Chandler assomigliano a “fairy tales and nightmares”. Ma in questo caso chi sogna? Chandler, certo, che mai come ne Il lungo addio si immedesima nel suo private eye molto ben alfabetizzato. Marlowe che, sempre come spiega Osborne, è il tipo “always in a lonely street, in lonely rooms, puzzled ever but never quite defeated” (cit. da una lettera di Chandler).

Rileggo oggi Il lungo addio, appena ripubblicato da Adelphi nella efficace versione di Gianni Pannofino, seguendo questa illuminazione o questo pregiudizio – ma è kafkiano anche Chandler/Marlowe in quanto scrivente tra veglia e sonno? – e ritrovando nel racconto di questo “uomo solo” una delle voci più celebri della letteratura poliziesca o noir.

Il lungo addio, storia di fantasmi tradotta in un lungo sogno/incubo, è il più autobiografico dei romanzi di Chandler: riunisce in Lennox il doppio di Marlowe, che tra l’altro è già un doppio di Chandler, e nello scrittore Roger Wade un altro doppio dell’autore, all’interno di una tipica storia di scomparsa e di perdita. Significativamente, e qui sta parte della superiorità di Chandler sul “genere”, il tutto non finisce in consolante epifania ma nell’accettazione stoica di un vuoto, di cui Los Angeles è l’emblema, il correlativo oggettivo “…evocando in definitiva l’incubo antropologico di una perdita collettiva di carattere e identità” (Benoît Tadié, su Caliban). La Los Angeles di Chandler in perenne espansione, anche criminale, quasi sfuggisse a ogni controllo della ragione, vede sciogliersi i legami tra gli uomini che vi abitano… Ne Il lungo addio comincia tutto con due uomini che si incontrano e poi si perdono, in ogni senso.

Leggo i primi capitoli, quelli che sanciscono la nascita dell’amicizia tra Lennox e Marlowe, e ne riscopro il fascino inconfondibile. Il dialogo tra i due che si trovano per caso e poi si rivedono – è Lennox a inserirsi quasi d’abitudine nella vita del private eye, raggiungendolo nella famosa casa in cima alle scale di Yucca Avenue o dividendo con lui un gimlet da Victor’s – è all’insegna dell’omissione. Lennox non si racconta, tra un rovescio e l’altro della sua fortuna da ladies man, e quando invece vorrebbe farlo, Marlowe lo pianta in asso. Il detective, dal canto suo, è rispettoso, quasi accuditivo, e semmai, come nel suo stile, ribatte ironicamente o sarcasticamente: tra di loro sembra già tutto – ma che cosa? – sottinteso, segnato. In realtà, abbiamo a che fare con una seconda omissione. Quella del racconto vero e proprio in cui Marlowe non indaga la sua attrazione per Lennox – il perché faccia gratuitamente tante cose per lui, il perché auspichi quasi di farsi ingaggiare come detective per regolamentare il bond che unisce fin dal principio i due uomini.

Tra Marlowe e Lennox c’è un riconoscimento, un’identificazione. “È solo un cane randagio”, dice una donna la notte del primo incontro. Marlowe annuisce. Che il motivo dell’agnizione risieda qui? Oppure sta nell’attrazione di un contrasto, quello tra la buona educazione di Lennox e la cicatrice corretta dalla chirurgia plastica che gli marchia il viso?

Dicevamo. È Marlowe, che descrive un uomo in qualche modo interessante – e destinato fin dall’incipit alla scomparsa… Rileggendo oggi viene la tentazione di pensare, recuperando la citazione dalla lettera di Chandler, che forse Marlowe si inventa tutto o sogna tutto per non soccombere alla solitudine, essendo appunto il tipo “always in a lonely street, in lonely rooms…”.

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Elliott Gould as Philip Marlowe

Quando lessi The Long Goodbye (1953, Oscar Mondadori 1970), il Marlowe cinematografico in carica era Elliott Gould nel film di Robert Altman, datato 1973: un Marlowe incerto e pasticcione nell’impersonificare un cliché di detective anni Quaranta in una California già molto anni Settanta. Gould sembrava privo della adulta severità di Humphrey Bogart o di Robert Mitchum – bastavano le loro facce di pietra a garantirla, semplificando il mondo dello scrittore. Altman non banalizza né tradisce Raymond Chandler ma anzi, pur interpretandolo in modo iconoclasta, lo esplicita, tra l’altro con un semplice e geniale scarto di trama rispetto all’originale. Vale la pena di leggere prima Il lungo addio e poi di vedere la versione di Altman.

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