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Adam Rutheford. Eugenetica, la terribile illusione

Possedere una scatola “magica”, con dentro le istruzioni molecolari per la costruzione e la manutenzione dell’essere umano, e resistere alla tentazione di usarla per migliorare la specie, eliminare i tratti indesiderati o dannosi, assicurare alla nostra progenie magnifiche sorti e progressive.

Resistere? E perché mai. Da quando Charles Darwin scoprì il potere della genetica e dell’ereditarietà, cambiando per sempre la concezione del mondo e di noi stessi, davanti agli scienziati e a tanti (troppi) politici si spalancarono orizzonti impensabili: manipolare, per il bene comune ovviamente, l’assetto genetico che abbiamo in dotazione. Nacque così l’eugenetica, termine teoricamente benevolo (“eu” significa “bene, buono”) marchiato ormai di tutto il maleficio immaginabile. Eugenetica, ossia la soppressione – preferibilmente con il gas nazista – dei deboli e degli indesiderati.

Ma ben prima che il nazismo ci mettesse le mani sopra, intorno al concetto di eugenetica si coagulò – e siamo ancora a fine Ottocento – un insieme inestricabile di buone intenzioni (di cui, si sa, è lastricato l’inferno), ignoranza dei complessi meccanismi biologici, presunzione, mentalità suprematista, euforia da potere: se la stessa natura, era il ragionamento, impone la sopravvivenza del più adatto, altrettanto possiamo e dobbiamo fare noi medici, noi politici, nel momento in cui si apre l’occasione di farlo.

La lunga, terribile e magnifica vicenda del “gioco del Dna” ci viene magistralmente raccontata nel saggio Controllo, storia e attualità dell’eugenetica del genetista e scrittore inglese Adam Rutheford, edito da Bollati Boringhieri (che nella scelta dei saggi scientifici non sbaglia un colpo). Dalla scintilla accesa da Darwin, e dall’intuizione di come procede l’evoluzione, si arrivò ben presto alla convizione che tra gli esseri umani esistono implacabili gerarchie di qualità.

“Il livello intellettuale medio della razza negra” scriveva per esempio Francis Galton nel 1869 in Hereditary Genius “è circa due classi sotto il nostro”. E ancora: gli scozzesi e gli inglesi del nord sono superiori agli inglesi comuni, la razza più ricca di talento è quella degli antichi greci, e così via inanellando classifiche di “insostenibile leggerezza” con tutto il naturale razzismo di un’epoca in cui sembrava palese che i bianchi fossero biologicamente migliori di ogni altra razza che Dio (per chi ci credeva, l’entità suprema cominciava già ad appannarsi) aveva creato;  tanto valeva spingere la popolazione umana verso la giusta direzione, abbandonando – o addirittura eliminando, con pratiche di sterilizzazione, le razze inferiori o gli individui ritardati, fardello costoso e potenzialmente pericoloso per la qualità globale della specie.

L’entusiasmo per l’eugenetica come strada verso un luminoso avvenire contagiò un po’ tutti: scienziati, intellettuali, governanti e governi. E se, giustamente, associamo la “purificazione della razza” a quello psicopatico di Hitler, ci sorprenderà tuttavia sapere che anche il mitico Churchill, colui che contro Hitler scagliò tutto il suo formidabile esercito, che fu il simbolo di un eroico patriottismo e di una feroce indignazione morale, che trionfò su uno dei mali più spaventosi al mondo (tuttora ineguagliato) ecco, anche il ministro degli Interni inglese rappresentò al meglio tutto il razzismo del suo Paese. Eugenista convinto – e tale rimase sino alla fine -, preoccupato dal declino razziale britannico, era favorevole all’estinzione (tramite vasectomia) dei ritardati, dei malati mentali, degli alcolizzati.

Con Hitler venne l’orrore finale, che in nome di un’eugenetica delirante estirpò dapprima bambini tedeschi con ritardo mentale o con malattie incurabili, abbandonati negli orfanotrofi e lasciati a morire di fame, e poi massacrò con teutonica efficacia 11 milioni di abitanti del pianeta. Dopo la Seconda guerra mondiale, tutti i centri (tedeschi, inglesi, americani…) specializzati negli studi sull’eugenetica cambiarono nome, diventarono Istituti di genetica, e quell’“eu” cadde in disuso, marchiato dall’orrore.

Adam Rutheford

Abbiamo rinunciato a intervenire sui geni per “migliorare le cose”? Qui il saggio di Rutheford diventa ancora più illuminante.  Il termine “rinuncia” non fa parte del lessico scientifico. Abbiamo però imparato che quelle tre parole, Dna, racchiudono un mondo talmente complesso, entropico, difficile da maneggiare e prevedere, che è ingenuo e pericoloso, quasi da dilettanti, pensare di poter trattare la razza umana come gli animali da allevamento, selezionando i tratti desiderati ed eliminando quelli non voluti. O meglio: lo si può fare (e lo si fa) nella diagnosi prenatale se in una famiglia ci sono patologie monogenetiche e i genitori non vogliono il loro bambino viva nella dannazione di una malattia come la Corea di Huntington (se non sapete cos’è, andate su Google e capirete), giusto per fare un esempio. Impossibile pensarla diversamente, in questo caso.

È eugenetica questa? No, in nessun modo, risponde Rutheford. Sono tecniche ideate in casi estremi per alleviare la sofferenza degli individui, causata da specifici geni. Ma se domani potessimo scegliere di avere pargoli con occhi verdi e capelli rossi, o con un quoziente intellettivo niente male, sarebbe eugenetica per futili motivi? Lasciando parlare i fatti, in realtà, questi ci dicono un’altra cosa: che anche in questi casi in apparenza semplici, la danza dei geni è incredibilmente complessa. La retorica dei “bambini su misura” viene da un’idea démodé della genetica, buona giusto per romanzi o serie tv che si vogliono distopici.

Ma poi, se anche fosse possibile selezionare gli esseri umani come si fa oggi con il bestiame  per favorirne le caratteristiche desiderabili, come sognavano gli eugenisti naïf e spietati del passato, siamo sicuri che sarebbe una buona idea? Diamo un’occhiata agli animali di allevamento selezionati per essere “migliori”: polli grossi ma incapaci di camminare o persino di reggersi sulle zampe, pecore muscolose ma afflitte da mastite, maiali che hanno bisogno continuo di farmaci. Guardiamo ai cani: razze con tanto di pedigree, ma con un avvenire denso di malanni, problemi, disturbi, predisposizioni ad ammalarsi di questo o quello.

Il controllo tirannico che riusciamo a esercitare, a livello molecolare, sulle forme di vita animale è imperfetto, pieno di imprevisti e rimbalzi pericolosi. Siamo sicuri di volerlo applicare, semmai fosse possibile, a noi stessi? Al di là delle norme morali, etiche e legali che si porta dietro, ci sarà sempre quel mazzo di carte arancioni del Monopoli, “gli imprevisti”, da cui saremo obbligati a scegliere, scoprendo un numero infinito di incognite ed effetti collaterali. Potendo eliminare “il gene” della schizofrenia (che peraltro non esiste), non sarebbe venuto al mondo il matematico e premio Nobel John Nash. Niente sordità, niente Bethoveen. Niente disturbo bipolare nessun Robin Williams. Niente malattia del motoneurone, nessun Stephen Hawking a scrutare oltre l’orizzonte degli eventi dei buchi neri.

Quanto a Churchill, fautore della purezza della razza, beveva senza ritegno (era probabilmente etilista), e c’è chi ritiene soffrisse di depressione clinica con sbalzi d’umore. Se non fosse nato in una condizione di privilegio, sarebbe stato uno di quegli individui di cui lui stesso auspicava la sterilizzazione forzata. Per fortuna sua e nostra, non è andata così.

Nella foto, un frame del film di fantascienza Il villaggio dei dannati

  • Alice Caroli è una giornalista di Torino

Credit: Anti-Nazi Rally at Washington-Jefferson Park by dsgetch is licensed under CC BY 2.0.

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