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Allonsanfàn
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Che cosa imparare da 20.000 specie di api

Può essere che, uscendo dal cinema, il vicino di poltroncina, che non conosci, ti rivolga la parola e dica: “Io sono devastato”. Per poi aggiungere, nel timore di un equivoco: “Ma poi, in realtà, il film dimostra che tutto è più semplice di quello che sembra”.

Basta capire qual è il proprio nome – ecco: non apriamo qui discorsi filosofici da esistenzialisti. Il proprio nome, dicevo, perché nel nome c’è già o ci starà tutto. Dopo il nome – raggiunto e conquistato, ma anche soppesato prima di pronunciarlo e trovarvi identità – non è necessario aggiungere altro, tanto meno una specifica di genere… E poi basta mettersi un vestito adatto, in senso letterale. Punto.

Quest’anno abbiamo visto un docu italiano (anche questo inneggiante alla semplicità) su quattro ragazzi in transizione, che si intitolava proprio Nel mio nome. Il film di Nicolò Bassetti non scadeva mai dal livello dell’intelligenza (persino pedante a tratti) al compromesso di una faciloneria buonista (o poco partecipe).

Non lo fa neanche questo 20.000 specie di api diretto da Estibaliz Urresola Solaguren, classe 1984, qui al primo lungometraggio, che si avvale dell’apporto straordinario della piccola Sofía Otero (meritato Orso d’Argento a Berlino 2023). Ma dunque veniamo alla trama.

Cocó, otto anni (Sofía Otero) si sente fuori posto e non capisce perché. Non si riconosce nel suo nome di battesimo, Aitor, né nello sguardo e nelle aspettative di chi ha intorno. Terminata la scuola, si reca con i fratelli e la madre Ane, che è nel bel mezzo di una crisi professionale e sentimentale, nella casa materna dove la nonna Lita e la zia Lourdes vivono grazie all’apicoltura e alla produzione di miele. Questa estate nella campagna basca cambierà le loro vite, costringendo le donne di diverse generazioni a fare i conti con i loro dubbi e le loro paure. Anche Cocó riuscirà finalmente ad affrontare i propri dubbi e le proprie paure, a trovare la sua vera identità e decidere così qual è il suo nome…

Nelle due ore del film si evidenzia come l’oggettività da docu possa servire la fiction e viceversa la fantasia di una regista possa illuminare, senza bisogno di luci stroboscopiche, la realtà. Al termine, abbiamo visto uno spettacolo coinvolgente (e come si diceva devastante, devastante il mondo dei luoghi comuni) e essenziale. Come si diceva, tutto è molto più semplice di come sembra.

C’è una bella intervista della regista a CineEuropa: il suo film è “…un inno alla diversità, come quella garantita dagli insetti nel titolo, che mi hanno permesso di lavorare sull’immagine dell’alveare familiare, dove ogni ape ha la sua funzione specifica e necessaria affinché il gruppo funzioni. Quell’organismo superiore (l’alveare) è governato da regole proprie che mi interessa identificare come famiglia. Quella tensione tra l’individuo e il collettivo si genera lì, con questo ritratto di api diverse e necessarie (nonne, zie, madri, figlie…) per il funzionamento sociale. Mi interessava anche concentrarmi non solo sul viaggio del personaggio di Cocó/Lucía, la bambina protagonista, ma anche su come si trasforma lo sguardo di chi la circonda: per questo avevo bisogno di costruire quell’ambiente di persone diverse che ricevono, accettano o affrontano la realtà che viene messa sul tavolo“.

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