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Allonsanfàn
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Costanzo. Finalmente l’alba, che non se ne può più

È dedicato quasi in modo scontato a Maurizio (“a mio padre”) Finalmente l’alba, il film più ambizioso di Saverio Costanzo, puntato su una Roma che non c’è più, forse non c’è mai stata (fuori dai cinema) o chissà mai. Saverio C. fa ritorno artisticamente nella mitologica Capitale dalla Napoli internazionale dei serial tv tratti dai best seller di Ferrante – dunque da un luogo standardizzato piuttosto ibrido, abbastanza lontano anche dal suo ultimo, piccolo film newyorchese, il molto contemporaneo e intimo dramma famigliare di Hungry Hearts (tanti applausi nel 2014).

I 140 minuti di Finalmente l’alba presentati alla mostra di Venezia sono stati prudentemente sforbiciati a 120 per l’uscita in sala, e sono il tempo pieno di una quasi ostentata prova d’autore: dovrebbero evocare e resuscitare mondi reali e immaginari, e poi scorrere lenti e stuporosi in una lunga festa (ancora un party romano!), che si vorrebbe nobile e stracciona, amorevole e pericolosa, infida e insieme maggica – ma, lo anticipiamo da subito, è proprio la magia che manca al filmone di Costanzo, e manca a noi il credere nel suo film che ci scorre davanti, cioè il finirci dentro almeno un po’, smettendo di pensare agli affari nostri mentre siamo lì giù stravaccati in platea.

Di vita vera o specialmente reinventata, comunque pasticciata, ne ha assemblata davvero troppa Costanzo a confronto dei suoi non illimitati mezzi narrativi, più efficaci nello scandaglio privato di anime e ignoranti il volo poetico dei maestri visionari. In ogni modo, nel suo primo kolossal il regista ha rifatto mimeticamente o ci ha buttato dentro: un trancio di film neorealista con Alida Valli (Alba Rohrwacher brava ma fisicamente fuori parte), il sontuoso ciak di un peplum d’antan, la Dolce Vita in perpetua citazione e anche, meno ovviamente, suggestioni da Toby Dammit, e inoltre Costanzo non è riuscito a negarsi nemmeno un po’ di mood alla Sorrentino – c’è pure una belva, una leonessa ruggente, che gira per la Capitale rischiosamente vicina ai borgatari e ai coatti in coda per la scontata comparsata a Cinecittà – e, come prevedibile, dopo aver mal shakerato tutto sebbene in dosi assai generose, ecco l’approdo fatale alla chicane d’entrata in una quasi interminabile notte (vedi al proposito il titolo del film!) – molto più parlata che se Costanzo fosse un emulo di Antonioni, molto meno che se avesse assoldato tra i character Jeppino Gambardella – la quale notte sbalza la protagonista del film Mimosa (Rebecca Antonaci), ragazzetta innocente col golfino e un sogno d’amore nel cuore, dentro il milieu del jet set (una volta si diceva così) in cui, con imprevedibile svolta socio horror – in fondo Costanzo padre aveva sceneggiato l’avatiana La casa dalle finestre che ridono – si è appena consumato o deve ancora consumarsi il delitto Montesi (siamo nel 1953, vedi Wilma Montesi su Wiki). Mimosa è infatti, e lo capiamo a poco a poco e malamente, un alias di Wilma…

Lily James

Insomma: Saverio Costanzo, spalleggiato da egotiche dive (Lily James) e bellimbusti hollywoodiani (Joe Keery), da apolidi gentili ma chi lo sa (Willem Dafoe) e da sordidi aristocratici, palazzinari e politici, spinge la povera Mimosa fin sulla spiaggia di Torvaianica in cui campeggia la misera croce di Wilma e dentro un’irrealtà cinemica dove tra palpitazioni sentimentali, incubi di morte, minacce di stupro, sniffate di coca e altri cliché finiamo con il consultare più volte lo smartphone (una volta si diceva: guardare lorologio), anche perché Costanzo ha scritto tutto da solo, solissimo, senza un Flaiano, certamente, ma pure senza un Colombati qualsiasi, che gli desse uno straccio di mano. Il the end incongruamente simbolico è straniato via alla Sofia Coppola con l’aiuto rock di Lite Night di The Strokes.

Joe Keery

P.S. (dal pressbook) Saverio Costanzo: “Inizialmente volevo scrivere un film sull’omicidio della giovanissima Wilma Montesi, avvenuto nell’aprile del 1953 e che rappresentò per l’Italia il primo caso di assassinio mediatico. La stampa speculò sulla vicenda, che coinvolgeva personalità della politica e dello spettacolo, e nel pubblico nacque un’ossessione che presto diventò indifferenza. Dalle cronache scomparve la vittima per fare posto alla passerella dei suoi possibili carnefici. Poi, come accade spesso scrivendo, l’idea iniziale è cambiata e piuttosto che far morire l’innocente ne ho cercato il riscatto. Mi piace infatti pensare che Finalmente l’alba sia un film sul riscatto dei semplici, degli ingenui, di chi è ancora capace di guardare il mondo con stupore. La protagonista Mimosa è un foglio bianco, su cui ognuno dei personaggi in cui s’imbatte scrive la sua storia, senza paura di essere giudicato. Mimosa è una ragazza semplice, una giovanissima comparsa di Cinecittà che nella Roma degli anni 50 accetta l’invito mondano di un gruppo di attori americani e con loro trascorre una notte infinita. Ne uscirà diversa, all’alba, scoprendo che il coraggio non serve a ripagare le aspettative degli altri, ma a scoprire chi siamo”.

Nella foto di apertura, Rebecca Antonaci, tra Joe Keery e Willem Dafoe (credit Edoardo Castaldo)

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