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The Kominsky Method su Netflix. Douglas e Arkin, irresistibili tra risate e lacrime

I camerieri di Musso & Frank, leggendario locale hollywoodiano frequentato da scrittori e gente del cinema, non solo sono decrepiti, come i loro affezionati avventori, ma parkinsoniani magari per aver incrociato i guanti un secolo fa con Roberto Mani di Pietra Durán. Se fate un infarto lì, perché avete esagerato con fegato e cipolle, nel tempo che i camerieri chiamano l’ambulanza, voi siete già arrivati al Cedar-Sinai, che è poco lontano, magari dopo aver avuto, per il consiglio balzano di un commensale, uno sgradevole incidente intestinale.

Partiamo dai separé di Musso & Frank nell’episodio numero 13 per notare che il comedy drama The Kominsky Method è una serie per two jewish buddies oltre i settanta, con protagonisti un attore romantico e il suo pestifero agente, dotati di humour scuro e tagliente ma anche all’occorrenza di sincera lacrima pronta sul ciglio. Secondo appunto, la corporeità intesa come salute del corpo ha, giocoforza, molto spazio nel dizionario brillante della serie, animando continuamente le battute e le vicende degli arzilli personaggi: reflusso gastrico, colpi della strega, areofagia e disfunzioni erettili spadroneggiano tra uomini che si sono vaccinati ai tempi della polio – inconvenienti che cedono poi il passo verso la toilet o la prima siepe a disposizione a prostate che consentono solo sgocciolamenti, pochi e sofferti leaks, in originale.

Nel caso abbiate problemi analoghi viene incontro la durata di una puntata di The Kominsky Method, ora disponibile integralmente su Netflix: variando dai 23 ai 34 minuti, conferisce al tutto un’aura da antica sitcom da consumarsi nel preserale e non incoraggia alla più giovanile fruizione in modalità binge watching seppure shottino per shottino.

Michael Douglas, classe 1944, è Sandy Kominsky, attore fallito che insegna recitazione, e Alan Arkin, classe 1934, il cinico agente Norman Newlander, suo migliore amico. Purtroppo Arkin è assente nella terza stagione, 6 episodi da giugno disponibili su Netflix

Ma chiunque dia un po’ di spago a Il metodo Kominsky – tre stagioni, 22 episodi – sarà catturato, poiché si avvale del mestiere e della consapevolezza del mestiere di un mai così bravo Michael Douglas, classe 1944, nei panni di Sandy Kominsky, attore fallito che si è reinventato insegnando recitazione, e sfrutta la classe di un gigantesco Alan Arkin, classe 1934, icona di scuola ebraico americana, in quelli di Norman Newlander, il cinico agente e miglior amico, che nelle prime puntate conosciamo afflitto da una fresca vedovanza e segnato da una disastrosa paternità – la figlia quarantenne è all’ennesimo ricovero in rehab.

Spetta a Michael-Sandy rianimare Alan-Norman che pensa al suicidio. Situazione che tenderà spesso a ripetersi a parti alterne soprattutto quando la corporeità della vecchiaia (nella seconda stagione) dal campo comico si spinge in una buona mistura di toni nel drammatico…

La recente terza stagione, di sei puntate, è priva di Arkin, e inizia con il suo funerale, animato da un travolgente crescendo di improbabili discorsi funebri, che rimbalza dallo scazzamento di buon cuore di Sandy alla freddezza del nipote, un ufficiale dianetico, che guarda col sopracciglio alzato gli “umani”, alla lussuria della nuova e anziana compagna che descrive a sorpresa i molto metodici ma imprevedibili appetiti del defunto. È possibile sostituire Arkin, che aveva detto in anticipo di essere disponibile solo per due stagioni? No, ma si prova lo stesso inserendo Kathleen Turner, ex moglie di Michael Douglas (e di chi se no? Ricordate i Roses in guerra?) e ampliando lo spazio dedicato alla figlia di lui e al suo anziano e complessato compagno.

Gli applausi oltre che agli attori – comprimari compresi – vanno al dominus della serie, Chuck Lorre, alias The King of Sitcoms, classe 1952, celebre per Due uomini e mezzo, citata in maniera molto divertente alla stregua di un classico teatrale nell’episodio 14, e The Big Bang Theory.

Lorre condivide il suo touch, divertito e caustico, di riso e di pianto, con i fuoriclasse che ha a disposizione, e, specialmente nella terza stagione, aumenta la dose di saggezza, mai troppo semplificatoria ma comunque tranquillizzante: siamo o non siamo in un preserale?

A lato. Per il lato più spiccatamente jewish della serie, e il Golden Globe (vero) alzato da Michael Douglas come “alter kaker”, potete leggere qui

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