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Allonsanfàn
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La zona d’interesse. Un altro modo di raccontare Auschwitz

Eh già, di nuovo, si riparla, e si nota che ce n’è ancora un gran bisogno, della cosiddetta banalità del male, e si cita a pioggia Hannah Arendt – sia che avesse ragione o torto nel caso specifico riguardo Adolf Eichmann, boia privo di immaginazione; se ne riparla nel film d’autore, applauditissimo, che riaffronta la ferocia genocida del nazismo, mal celata dal burocratico zelo sotto cui la può contrabbandare un impiegato del Terzo Reich.

Ne La zona d’interesse di Jonathan Glazer (il talento inquieto di Birth-Io Sono Sean e di Under The Skin), tratto molto in libertà da un romanzo di Martin Amis, ci sono un uomo e una donna, marito e moglie, che provano a costruirsi una famiglia felice in un luogo all’apparenza impeccabilmente borghese.

Ma l’uomo in questione si chiama Rudolf Höß, ed è il comandante in capo di Auschwitz, qualcosa di più di un umile complice dello sterminio, e la villa con giardino e piscina, quella in cui cresce cinque figli, è situata appena al di là del muro del campo di concentramento. Insomma, già così il regista potrebbe cavarsela, servendo allo spettatore l’atroce contrasto: telefoni bianchi e forni crematori; venti di primavera e fughe di gas, paradiso falso e vero inferno, nella cosiddetta Interessengebiet, eccetera eccetera. Ma no, però, perché il film è di forma tutt’altro che scontata. Glazer non fa il temino, gira in modo scaltro e molto straniante, trattando dapprima la quotidianità dei servi dell’orrore con riprese gelide e lontane, quasi impersonali, quasi da docu.

È una falsa imparzialità fattuale tutta a beneficio di chi guarda, per illustrare meglio la famigerata zona, perché ci si abitui, come spiando dal buco della serratura, alla vita alienata che ferve in casa e, poco discosto, nel campo. Com’è noto, questa straziante coolness di La zona d’interesse si deve al modo in cui è stata girato il film, piazzando macchine da presa maneggiate da remoto nella residenza degli Höß (ricostruita alla perfezione dallo scenografo Chris Oddy), utilizzando la luce naturale e chiedendo agli interpreti di muoversi liberi in scena, cioè nella casa, ripresi in contemporanea da più di dieci angolazioni – un po’ stile Grande Fratello, pensando a Orwell più che a Signorini, po’ stile Dogma…

Così Glazer crea la sua “banalità del racconto” ai confini di un luogo di orribile disagio, aiutandosi con la musica elettronica disturbante di Mica Levi, abituale sodale, o con pause traumatiche della narrazione, che può bloccarsi su uno schermo rosso sangue. A poco a poco, Glazer lascia capire dove siamo finiti e che aria stiamo respirando magari mentre a bordo piscina si svolge una festa di compleanno.

Non ha bisogno mai, e la sua scelta in sottrazione si rivela molto efficace, di far vedere, di fare entrare lo spettatore ad Auschwitz. Idea geniale e utile all’effetto della sua arte, oltre che rispettosa del celebre memento di Adorno. Auschwitz deve immaginarla lo spettatore, se vuole… Tutto ciò prima che il film imbocchi una prospettiva storica più lineare e racconti la carriera fulminante nel partito di Höß e l’irritante cecità di sua moglie Hedwig, convinta stolidamente di vivere in un eden.

Höß come Eichmann, cui più che l’intelligenza manca la capacità di immaginare che cosa sta facendo? “[Eichmann] non era stupido: era semplicemente senza idee (una cosa molto diversa dalla stupidità), e tale mancanza di idee ne faceva un individuo predisposto a divenire uno dei più grandi criminali di quel periodo…” (Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, 1963, Feltrinelli). Risposta: in realtà Höß sembra aver sempre nuove idee per ingraziarsi il führer e far progredire il genocidio. E ancora: ma davvero Auschwitz è una fabbrica (anche se di morte) simile a tante altre, come s’intuisce qui? Oppure, capovolgendo la domanda e rendendola più insidiosa, non sono per caso le fabbriche normali ad assomigliare nei meccanismi a un campo di sterminio (Foucault docet)?

Ciò per dire: ognuno, uscendo dal cinema, è invitato a rivedere i propri confini, mentali e concreti, magari mentre preleva a un bancomat nel centro di Milano dopo aver scavalcato il corpo di un homeless che dimora nel vano della banca perché lì fa meno freddo. Me lo scrivo qui in fondo a questa storia di ottimo cinema, anche perché non sembri che l’unico crimine perpetrato nell’indifferenza – l’unico a cui noi in particolare siamo stolidamente contigui in un Paese neo fascista – sia quello di dimenticare l’Olocausto…

Intanto, il film di Glazer scorre disturbante sullo schermo e vola verso la notte degli Oscar aiutato da attori impeccabili, prima di tutti Sandra Hüller e poi Christian Friedel.

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