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Allonsanfàn
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A Dubai, vietato scivolare (anche la buccia di banana è di plastica)

Planare su Dubai nell’alba formicolante di tenui bagliori, vortici di particelle atomiche che cambiano pure il colore dell’acqua, ocra, panna, crema, champagne, il mondo vestito da Armani pare da quassù, dentro la cabina dell’aereo, pneumatica, dove per suggestione col fischio delle orecchie all’atterraggio raschia quasi la gola, e si tossicchia dopo le poche ore di un sonno rattrappito, che è il viaggiare proprio, lo sfiato di un rattoppo alla vecchia gommosa anima straccia, il mastice che non tiene e i fallimenti che se ne volano, finalmente… una scartavetrata alla pista, nella nube fragile di sabbia, sciabolate di sole sopra l’ala tremolante e si cola, tostati e frastornati, pensando d’essere nel deserto e invece prima sono appezzamenti di terreni di sterpaglia verde, arterie di asfalto, piccoli conglomerati di bassi compound, isolati, e poi, eccole, le onde di sabbia, infinite, col cielo che si riappropria dell’azzurro. Il sole basso, improvviso, ferisce, dal finestrino. Sono le ore sei zero cinque locali.

Via per Dubai. Come fosse il layout di un nuovo videogame, un volo rapido come dentro certe metropoli(s) che un tempo che ora appare lontanissimo incrociavi svolacchiando curioso dentro Second Life, così un po’ perché non c’è il tempo di approfondire, rinchiusi tra un resort stile villaggio turistico, un po’ perché sì alla fine tutto è un viaggio, anche uscire dagli orari consueti, dai sogni ricorrenti, da strade che compongono alla Paul Auster messaggi sempre uguali ma comunque indecifrabili, un viaggio che racconta lo spazio tra l’aeroporto e l’hotel, tra l’hotel e il Burj Khalifa, tra il resort e la venue per l’evento internazionale, tra il centro congressi e il centro commerciale, con puntata nel deserto che non è deserto, ma qui dove tutto è artificiale, meglio virtuale… città, mare, quartieri residenziali come portali verticali, ma anche grattacieli orizzontali, palazzi usciti per somma di mattoncini vestiti 8XL size, sghembi skyline combinati a capocchia, porte d’accesso mastodontiche a palme immobiliari, tronchi come moli d’accesso a quell’acqua immobile, in una foschia che sale in accordo con l’accensione dei condizionatori, l’entrata in scena di un luogo che alla fine non è nemmeno finto, nemmeno là dove auspicheresti lo fosse, e ti trovi imbottigliato – ma come? – pure sulle corsie moltiplicatesi senza mai essere sufficienti per smontare almeno il mito schianta nervi delle tangenziali casalinghe nelle rush hour con ambizioni cosmopolite, ma davvero stiamo facendo inversione a U a Dubai per prendere la corretta direzione per dove e nessuno ha progettato uno svincolo, un raccordo anche non anulare, una semplice bretella brianzola?

E chi mai ci sarà dentro quelle automobiline perfettine in transito back and forth (ma per dove, la domanda, come immersi dentro le fiumane multicolori sulle arterie di New Delhi) che al dunque tutti questi palazzoni con ambizioni da star sono solo damigelle all’unica vera protagonista, la strada d’asfalto levigato e lucido? Si potrà mica immaginare un andirivieni pendolare a Dubai, una fuga in qualche countryside con villino cantinato o bunkerino antinucleare, siamo a Dubai il regno tautologico dove l’Esser-ci è già motivo sufficiente per immolarvici, siano motivazioni fiscali, siano seconde occasioni, ma anche prime, per vite da rivendere al mercato delle occasioni là perdute e qui ritrovate, motivate, super pagate nello show che si ripete eterno sul filo della narrazione sempre uguale come sempre identica è la rappresentazione non la verità dello stare a Dubai, mera ripetizione nella propaganda di un futuro che è già il presente e perciò non può che essere rivenduto fuori, col suo corollario di vite probabilmente auto appagate più che per soddisfatte felicità per presunte realizzate aspirazioni di chi non è qua e stando altrove in realtà sogna ciò che qua è pur non essendo.

I grattacieli la notte esemplificano al meglio quella che è solo una percezione e mentre qualcuno già zooma per vedere se c’è una qualche forma di vita padronale, in affitto saranno le manovalanze umpa lumpa dei nuovi schiavi motivati dalla ottusa ricerca non della felicità che non c’è a Nairobi come a Dubai ma dello storytelling che promette a te raso al piano terra l’attico con piscina sul nulla che sei e che hai intorno, quando realizzato fosse mai il sogno, dei metri quadri già arredati di proprietà resta solo appunto la casa, in quelle finestre illuminate come in un tetris domestico su scala esponenziale, le facciate allora prendono vita animandosi in rappresentazioni cosmiche di avventure intergalattiche non per autostoppisti che a Dubai si viene per essere pur da nomadi digitali con un lavoro remoto e non da remoto piuttosto stanziali avendo scambiato il limbo per il paradiso e neppure artificiale.

Se tutto appare come calato dall’alto, e verrebbe da sospettare anche autoregolamentantesi come in un sogno anarchico però di Paperone e Rockerduck – qualcuno ha visto un vigile urbano o un semaforo immettendosi dalle foglie a raggiera al tronco di palma che poi diventa tunnel prima di risalire in quella che fa strano definire città? – si finisce per dubitare d’essere dove ci hanno raccontato si fosse, che al dunque una Lamborghini qua e un Ferrarino là, quegli yacht che si vedono dai ponti slanciati davanti a distese sabbiose trapuntate di ombrelloni, vetri oscurati i primi troppo lontani i secondi per capire se non siano meccaniche autodeterminantesi, in un’estate perenne, potrebbero anche girare sulle tracce di una pista laccata d’asfalto ma della Polistil, solo auto coi vetri oscurati magari col pilota automatico, nessuna traccia umana sotto il sole implacabile, nella bolla grigio-fumo, solo palazzi gigioneggianti in arabeschi antistorici qui dove la storia non c’è e regna il futuro anteriore, e macchine: unico un ometto in calzoncini corti che saltella con la corda sull’orizzonte sbiadito di un enorme oblungo cartellone che reclamizza l’ultimo modello di uno smartphone cinese, forse un miraggio troppo umano. Quando l’unica cosa certa è quella doppia fila di tralicci che arrivano dai generatori, un po’ goffi e tarchiati ma luccicanti sempre, la linfa vitale per tenere in vita il mostro.

Entri nel centro commerciale e la gente di Dubai è tutta lì pur facendo fatica a distinguere se non si tratti invece di una massa formicolante di turisti a denominazione d’origine controllata e protetta, a caccia di esotiche sicurezze, come nel Gran Mall di Guerre stellari, in estenuante fila per salire al Burj che qua pronunciano Bus e ha la forma di quello che un tempo si sarebbe detto un pisello a capocchia di spillo ma di sicuro sa chi è Mia Khalifa anche se il massimo del sexy advertisement è una cinese, ma sarà sicuro di Taiwan, in salopette e coppola, e con una teiera fallica, mentre nella vetrina di fronte le immagini delle donnine serigrafate col velo sono intercambiabili con quelle delle clienti che vi si sovrappongono. E di certo Armani che qui ha un hotel multipiano sarà stato in altre faccende affaccendato preferendo l’interior design di ispirazione feng shui al lavoro ai fianchi alle kandura rigorosamente bianca per lui e nero che sfina per lei, no beige o vaniglia, pure per la coppia dei telegiornalisti sul display che distraggono la sfinita pazienza dei turisti in coda: fin troppo ridanciani nella divisa fluida se commisurati al piglio sadomaso degli anchor nostrani, talmente compunti nella recita dei sempiterni addolorati dalle vicende italiche, con quella studiata grinta fuori luogo, tutte quelle false moine da chi la sa lunga sapendo invece solo i presupposti, da annunciare spesso col sorriso catastrofi mondiali.

Dalla terrazza al centoventicinquesimo piano, ma il privé è ventitré piani più su, a 555 metri, si lotta per la pole accanto al vetro e i più esperti non l’abbandonano finché, ogni quindici minuti, non si rinnova lo spettacolo delle fontane. “La sera è ancora più affascinante” dice un lui a una lei con mascherina che pronta lo asseconda rilanciando: “Come per tutte le città”. Per scendere ci vogliono due ore buone per via degli ascensori che saranno anche velocissimi ma nessuno ha risolto il problema di come arrivarci. A un certo punto solerti addetti indirizzano parte della fila in eccesso su ascensori secondari che scendono di un piano per poi ricollegarsi ad altri ascensori dai quali fuoriescono quelli che sembrano ospiti locali ma non autoctoni di uno Sky bar con drink list per poi precipitare precipitevolissimevolmente ancora ma solo per percorrere un corridoio disponendosi di nuovo a serpente in una girandola che si sospetta letale in caso di un qualche incidente. Preferiscono concentrarsi sull’altezza del prossimo grattacielo, dato che stanno per essere surclassati da una torre saudita firmata Foster + Partners.

Essendo tutto falso a Dubai nulla è più vero, eccetto il falso. Se tutto è attrazione e divertimento, niente più diverte, e tocca impegnarsi per scivolare fuori dai percorsi prestabiliti (e se vuoi semplicemente passeggiare, a Marina trovi giustamente le passeggiatrici, russe come da ragionamento induttivo che semplifica il concetto, che ti agganciano chiedendoti con pochi equivoci se ti vuoi divertire). Chi cerca l’autentico, come da recente narrazione dei media per la massa tornata fastidiosa con tutta questa ambizione di girare il mondo in gran caciara a perturbare presunte verità, qui ne trova l’essenza, basta mettersi d’accordo su cosa è autentico se come dicono la Old Dubai è la replica di una Dubai che c’era prima come certe città da Far West nel deserto del New Mexico. Il suonatore di oud e la danzatrice del ventre sono più o meno autentici del mangiafuoco d’importazione del quale si indovina una liason con la stupenda algida zigomata cameriera serba qui al ristorante nell’oasi fuori porta allestita come un set, e pronta a sbaraccare andati via i turisti?

Chi viene per sbrandarsi dieci giorni sotto l’ombrellone, col mare ridotto a girello rettangolare protetto dalle boe, aspirando a fare il Goblin sulla tavola da flyboard, salameccato da una corte di Bangla finto cortesi per disperazione, forse non ha ambizioni di trovare se stesso, ma nel plastico virtuale che piano piano dal nitido azzurro della mattina diviene via via più fosco, e non è la sabbia desertica, piuttosto i condizionatori che per rinfrescare sono obbligati ad aumentare la temperatura globale, rischia davvero, tra una coda al buffet per l’omelette farcita e un cocktail sulla spiaggia dove gli alcolici sono permessi, di incappare davvero in un qualcosa che gli somiglia: un frammento, un’illuminazione, un episodio, una turbolenza, un incontro superficiale… magari inciampando nella buccia di banana di plastica messa lì per avvisare di stare attenti a non scivolare. Mutevole è l’idea del viaggiare, più facile scappare dai consigli allora, per non incappare nelle stereotipate ricostruzioni a uso di chi non vuole perdersi, e ambisce alla sicurezza, ora che ti organizzano viaggi anti toccata e fuga pure in Giappone dove ne sono maestri, e trovare qualcosa di corsa che sfugga al ritmo lento della contemplazione divenuta moda, mortifero quiet luxury.

Sopra, la foto che spiega il titolo. Tutte le fotografie scattate con Poco F6 Pro sono di Gabriele Nava. Il suo video, qui

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