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Allonsanfàn
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Gran Bazar Istanbul reload

E se il bazar, il Gran bazar di Istanbul, altro non fosse che la versione tarocca – tarocca ma non troppo come concesso dalla finanza locale che chiude un occhio e anche due sulle copie luxury brandizzate a patto non siano, come potrebbero, esattamente simili all’originale? – di ciò che in altri tempi fu, se crediamo alle cronache dei viaggiatori più attenti che dal 1400 fino almeno a quando? una trentina d’anni fa? l’epoca in cui mi capitò di bazzicarci la prima volta e quindi con meravigliato stupore di fronte a quello che pareva un enorme caravanserraglio di merci e tipi umani in attesa o transeunti alla ricerca di non si sa bene cosa, essendoci di tutto, in quel dedalo labirintico che conduceva a esotiche rivelazioni tra colori, profumi e più spesso odori?

Soprassedendo sulla nostalgica impressione che nella memoria ingigantisce il tutto e ora sembra rimpicciolire ciò che una volta sembrò enorme, già dall’ingresso quell’abbozzo di metal detector e la guardia a presidiare con aria scazzata sono segno dei tempi che cambiano (ma se il terrorista islamico pare al tramonto in Occidente nella linea di successione dei pericoli esterni che compattano dall’interno le nazioni, chi mai sarà segnalato come potenzialmente pericoloso nel regno appena prolungatosi di Erdogan visto che non si può urlare al dittatore, forse il terrorista romano cattolico apostolico con simpatie curde?): perché in fondo dopo l’esplosione dei centri commerciali che radunano folle e abbattono stadi neanche fossero forme di controllo sociale per perditempo della domenica preoccupati di salvare il pianeta ma al dunque più interessati a cazzeggiare tra merci che esauriscono le risorse dello stesso piuttosto che dedicarsi a scampagnate nella Natura la copia occidentale ha sostituito in toto l’originale, l’angusto mercato coperto rionale è sbocciato in cittadella fortificata ma dagli ampi viali aperti, periferica e quindi perfetta per una gita risolutoria, mentre il bazar per quanto Gran appare oggi nella sua forma chiusa rettangolare con i pilastri e le campate di pietra e le cupole in mattoni decorate d’arabeschi proprio perché centrale più che il fulcro della vita degli istambulioti la classica tourist trap per cacciatori di bellosouvenir di romantica vacanza quando non è invece per i più l’occasione di dedicarsi alla ricerca dell’accessorio moda da sfoggiare a casa propria, tarocco certo ma si diceva quasi uguale e soprattutto assai meno caro dell’originale, che al dunque allo sguardo poco esperto, ma soprattutto superficiale, appare funzionale eccome al desiderio d’esporre su di sé non tanto la qualità tanto cara agli stilisti (?) ma l’idea per quanto vaga dell’archetipo luxury, meglio se spiegata agli ignavi con tanto di brand in formato extralarge, con definitivo vantaggio di tutti in quella che i più edotti in teoria dei giochi identificherebbero come una situazione vincente per ognuno: per il taroccatore che vende in scioltezza un falso originale come a Napoli una cassetta mixed by Erry, per l’acquirente fashionista che soddisfa oltre al suo desiderio d’avere status anche quello d’indossare il symbol e in ultimo pure per il brand che vede moltiplicarsi gli ambassador disposti a costo zero, e felici come Umpa Lumpa, a diffondere a loro insaputa se non il Verbo dell’Alta Moda almeno il logo imperiale.

Cosa resta dunque del fu Gran Bazar che ispirò prose dense a scrittori di passaggio estasiati da tal connubio tra umano e merce, quando ancora l’uomo riservava sorprese, pure a se stesso, e ogni cianfrusaglia pareva esotica tanto che leggere De Amicis a zonzo tra i negozi fa apparire minore il Cuore (Costantinopoli, Einaudi, 2015) mentre ora si è assaliti immediatamente dalla sensazione di trovarsi tra fake solari e dark fregature abilmente presentate tra tappeti, gioielli, ceramiche, lampade, spezie dove anche il brivido d’essere condotti dietro le bancarelle al deposito nascosto e perciò foriero di esclusività sa di messinscena come in certi mercati meno titolati della Thailandia dove ti suggeriscono di oltrepassare una tenda per accedere non al retrobottega ma allo scrigno più prezioso, l’offerta del tè quasi scompare nel flusso accelerato della competizione ad accaparrarsi il cliente (perché come sul web in vendita sei tu) e la contrattazione perde i suoi connotati di esibizione artistica visto che il mercante non abbocca alla richiesta di sapere qual è il prezzo (pronto risponde “Te lo dico se entri per acquistare”) e il cliente non ignora che la maggior parte delle merci… in mezzo a mucchi e a torri di broccati di Bagdad, di tappeti di Caramania, di sete di Brussa, di tele dell’Indostan, di mussoline del Bengala, di scialli di Madras, di casimir dell’India e della Persia, di tessuti variopinti del Cairo… se non sono fatte a Prato dai cinesi le trovi allo stesso prezzo alla Rinascente e forse a meno da Primark.

Così mentre l’influencer evolutosi in content creator per vezzo d’essere considerato artista (cosa che non sarà mai per le ragioni che tutti sapete) trova inconsapevole il suo paradiso insta worthy mettendosi in posa tra i colori e ripetendo il suo verso “Incredibile, raga!” tra un “Buongiorno!” e un “Dove vi ho portati!”, un test a risposta multipla, da Istanbul a Palermo, per vedere quanto sono arguti i follower e una Stories con degustazione chai assieme al vecchietto pittoresco che gli rifila un pacco di paprika dolce a euro cento, non mi resta che tentare, visto che pure perdersi oggi è impossibile geolocalizzati come siamo sulle Maps, di ribaltare l’assioma che tutti comunque trasgrediscono – nel mondo reale come in quello virtuale – dell’andare slow, come fosse regola indispensabile a cogliere chissà quale profonda verità, per scoprire before anyone else e senza comprare nulla, con rapida occhiata e neurone acceso, ciò che resta di autentico sempre col dubbio che non sia proprio dietro a quei grovigli di fili elettrici, di penombre fascinose, di artigiani all’opera, di rifiuti sparsi, di tazzine dimenticate, di mercanti indaffarati nell’abluzione pedestre che si nasconda la finzione e alla fine la vinca, appurato che in era ottomana non erano presenti ristoranti, il ghigno strafottente – sotto gli occhiali da sole dal sintomatico mistero, nell’iconica posa del gettatore di iodio, tra un manichino impupazzato da visir e uno da odalisca – del divo dei nuovi ristoratori, Salt Bae, il macellaio.

Tutte le foto sono state scattate da Gabriele Nava con HONOR Magic 5 Pro. Il video di Istanbul June 2023 su Vimeo, qui

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