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Allonsanfàn
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Bookcrossing. Il mio secolo di Günter Grass

Il mio secolo di Günter Grass, edito Einaudi nel 1999, raccoglie cento brevi racconti, di tre o quattro pagine al massimo, intitolati ognuno a un anno del Novecento (un Novecento in prevalenza tedesco). Sono in sé testi compiuti anche se non necessariamente scollegati tra loro – semmai divisi in brevi cicli poiché Grass adotta vari alias, oltre a se stesso – e credo che si possano leggere scegliendo a caso o partendo dall’anno che preferite, come ricomponendo i pezzi di un mosaico o di un romanzo in frantumi. La mia copia in edizione economica non contiene purtroppo gli acquerelli dell’autore.

La forza di Il mio secolo e la forza di Grass narratore, che qui procede necessariamente per lampi o per ellissi, risiede nella ricchezza dei punti di vista adottati, in larga misura diversi per ogni racconto. Operai classe media madri di famiglia commercianti impresari piccoli e grandi intellettuali ebrei dissidenti politici gente del prima o del dopo Muro ragazzi a cui viene insegnata storia da professori che paiono avere l’“ossessione del passato”… Il rapporto con il passato e in specie quello del popolo tedesco con il nazismo è il tema principe di Grass, tema vissuto drammaticamente in prima persona, come prova il disvelamento pur se tardivo della sua milizia giovanile nelle Waffen-SS. Non per caso il libro si intitola Il mio secolo (Mein Jahrhundert). Quel “mio” vale più di una concomitanza temporale: è l’impegno di uno scrittore che ha sempre collegato arte e militanza politica.

Forse, per queste pagine, conta più che per altre la definizione critica di John Updike: “He can’t be bothered to write a novel; he just sends dispatches… from the front lines of his engagement”. È bella, anche se guerresca, la parola “dispatch”, che può sostituire in questa raccolta quella di racconto.

Il mio secolo Günter Grass

Sfogliando qua e là, sono andato a consultare i cento anni di Grass come se fossero un oroscopo al contrario, partendo da quelli in cui sono stato vivo io.

Per esempio. Ho scoperto in un apparentemente futile 1958 una fulminante storia del nuovo fascino tedesco irradiato all’estero dalle algide Alice e Ellen Kessler. Due gemelle indistinguibili, e pare non a caso, perché tutto in quei tempi è doppio nella Germania reale, divisa da un colpo di spada, e giocoforza in quella descritta con passione da Grass.

Il 1961 non può dimenticare l’erezione del Muro di Berlino che, come ogni evento del secondo dopoguerra, Grass affronta con forti e precise pennellate, tradendo sempre inquietudine e insoddisfazione, nascente in prima persona dal ruolo frustrante toccato agli intellettuali o in genere dal disorientamento degli uomini comuni. Uno di loro dice mascherando appena il rimpianto – il rimpianto a tratti emerge, volgendosi subito in pessimismo, quasi che il passato avesse espresso, malgrado tutto, una vita più vera: “È stato il mio periodo migliore, quando passavamo nelle fogne con l’acqua fino al ginocchio”.

Due sono anche le figure inconciliabili di alcuni incontri falliti che nel dopoguerra deludono Grass. Significativo e diviso in più di un testo nel tour de force del libro, quello tra Paul Celan e Martin Heidegger, il quale non dirà mai come auspicato dal poeta qualcosa sull’Olocausto. Grass che nel testo si fa esegeta di due versioni di Todtnauberg, si nasconde nei panni di un professore, autoesiliato a Friburgo, ma deluso dal filosofo dell’Essere, erroneamente scambiato per luce tramite cui sortire dalle tenebre.

Nel racconto del 1927, non a caso l’anno di nascita di Grass, in quel di Danzica, parla di Essere e tempo come di un vangelo magniloquente per mediocri o peggio, oro falso da romanzo (o da vita?) d’appendice.

Saranno frustranti e doppi – e descritti in pagine incendiate da uno sguardo quasi ustorio – anche i rapporti tra gli studenti sessantottini (e i loro sfortunati leader) e il venerabile e quasi immoto maestro T.H. Adorno. Come divisa in due nell’anima è più tardi la sinistra tedesca incarnata da un cittadino di specchiata fede progressista che fa arrestare, con un’ambigua telefonata alla polizia, il fantasma di Ulrike Meinhof, e si trova poi nell’imbarazzo di esigerne la taglia.

La doppiezza storica è drammatica anche quando parrebbe futile. Nel 1974, per esempio, riviviamo un’inconsueta partita dei Mondiali di calcio, quella fratricida tra DDR e BRD: per complicare la prospettiva, Grass fa raccontare il match da un carcerato speciale, Günter Guillaume, il funzionario traditore delle Cancelleria federale che causò le dimissioni di Willy Brandt, politico della SPD che Grass appoggiò a lungo.

Dicevo prima di un senso di impotenza, che può giungere a raccogliere in sé la vanità dell’illusione. Accompagna gli intellettuali dell’Ovest che con documento d’identità alla mano passano a Berlino Est per leggere tra colleghi versi e capitoli di romanzi, in una sorta di riedizione del gruppo 47 – naturalmente il brivido del checkpoint scorre per la loro schiena, poiché ormai avvezzi alla democrazia…

Poi, sono ritornato a ritroso negli anni, ai raduni nazisti del 1931, a Harzburg e Braunschweig, “un esercito bruno in parata”, narrati da un collage di voci. Sembra per un attimo di sentire “montato” tra di esse il crepitare del tamburo del piccolo Oskar Matzerath, protagonista del romanzo capolavoro di Grass Il tamburo di latta. E sono arrivato al fatidico e imaginifico 1933 quando lo scrittore ci fa osservare le fiaccole dei nazisti che passano per la porta di Brandeburgo dall’atelier del vecchio pittore Max Liebermann, il presidente dell’Accademia prussiana delle arti, l’ebreo messo in pericolo dai nuovi potenti. Nota Grass, in allarme, osservando la piazza: “Promanava una volontà che sembrava necessario dover seguire. Nulla sbarrava il cammino all’avanzata di quella grandiosa fatalità”.

Il mio secolo Günter Grass

Sto rileggendo ora Il tamburo di latta, primo romanzo della trilogia di Danzica, il libro inarrivabile con cui Grass si sarebbe confrontato tutta la vita. Ricordavo il suo simbolico e iconico (parola giusta, seppure inflazionata) bambino Oskar Matzerath, anche per aver visto tanti anni fa la riduzione cinematografica in un film didascalico (come d’abitudine) ma potente (come si direbbe oggi) di Volker Schlöndorff – Schlöndorff, un paziente somaro capace di traghettare anche fuori dai cineforum e dalle sale d’essai il nuovo cinema tedesco. Gli occhi azzurri di Oskar Matzerath, il suo grido, il rullo del tamburo, letti o visti una volta, rimangono in testa a lungo.

  • Ho trovato Il mio secolo a 5 euro nella libreria Cosmopolis di via Jommelli 22, Milano

(Credit: Günter Grass | Mehr Licht by Christoph Mueller-Girod is licensed under CC BY-ND 2.0. Günter Grass | Mehr Licht by Christoph Mueller-Girod is licensed under CC BY-ND 2.0.)

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