Di mari e cieli australi. Di albatros maestosi e vite in solitudine al confine del nulla. Di granchi talmente rossi da chiamarli «Lenin». Di città che il nome ha trasformato in leggende, ma ad arrivarci si scoprono grigie e depressive. Di alberi che resistono a geli formidabili e di balene megattere come miraggi tra le onde. E poi di vento, di vento dappertutto. A descrivere quella Patagonia «ancora più Patagonia» che è la Terra del fuoco, frammento di mondo sulla punta più a sud del Sudamerica, ci hanno provato in tanti. Tra i più grandi, Borges, Coloane e poi il raccontatore di luoghi reali e anche un po’ immaginari Bruce Chatwin.
Ma il carnet di viaggio Verso Capo Horn del maestro dell’illustrazione Stefano Faravelli (appena uscito da Adelphi, 97 pagine, 38 euro), alle visioni fatte di parole aggiunge un’ulteriore dimensione con la magia delle figure a colori. Da tanti anni l’illustratore-scrittore fa viaggiare con i suoi «diari mobili», così li definisce lui, tra Estremi Orienti, Afriche fluviali, Indie in cerca di elefanti. Questo volume è la cronaca, per quasi cento tavole, del suo viaggio verso «il Capo» della Terra oltre il quale c’è solo oceano – il più delle volte infuriato – fino ai ghiacci dell’Antartide.
L’autore vuol arrivare fin là, nel febbraio 2016, a bordo della barca a vela «Adriatica», uno sloop di 21 metri: da Ushuaia, Tierra del Fuego argentina, lungo il Canal Beagle costeggia l’isola cilena di Navarino e fa rotta verso la destinazione-simbolo del viaggio.
Ecco che Faravelli disegna pinguini perplessi e paesaggi strabilianti, così come le brutte case in lamiera di Ushuaia (oggi l’insediamento che l’Argentina dice essere il più a sud del globo è arrivato a oltre 80 mila abitanti), il cui sviluppo urbano è avvenuto per accumulazione disordinata. Ma non importa, perché appena oltre l’ultima strada della cittadina accade questo: «La mattinata splendeva luminosa e lo sguardo si spingeva nell’aria tersa fino a dove il Canal Beagle sfocia nell’Atlantico. I picchi innevati che costeggiano il Canale degradavano in azzurre lontananze, cormorani segnavano lettere viventi tra cielo e mare». Faravelli annota e noi ci incantiamo anche solo a veder affiorare luoghi sulla carta.

All’inizio del carnet l’autore esordisce con i suoi «presagi patagonici», che esercitano il loro richiamo come in ogni avventura che si rispetti.
C’è, per esempio, una cartolina regalata da un’amica: riproduce un uomo «minuscolo» di fronte al giganteggiare del ghiacciaio Negri, in una posa che ricorda i quadri del romantico tedesco Caspar David Friedrich. Poi Faravelli, come altro invito a partire per il Grande Sud, «allega» una figura mitica ovvero il Gigante patagone, una statua lignea vista in un museo fiorentino, omaggio postumo alla popolazione dei legittimi «fuegini», i gruppi di Teuelches, Yaghan, Selknam. Tutti sterminati dalle malattie diffuse dagli immigrati europei e da una letterale caccia all’uomo che i «civilizzati» occidentali attuarono in Patagonia, tra gli anni Venti e Trenta dello scorso secolo.
Grazie alle immagini del disegnatore si esplorano piccole spiagge su cui si spinge la foresta pluviale di queste latitudini. S’incontra finalmente l’odierna fauna patagonica: il gabbiano ovvero gaviota, l’oca cauquen, l’albatro reale, lo sfenisco di Magellano cioè il piccolo pinguino che galleggia come un palloncino sulle acque grigie. Su tutto, come un talismano, esercita il suo potere la coda immensa della megattera che compare tra le onde del Canal Beagle.

Nella rotta di avvicinamento verso il Capo, si tocca terra a Puerto Williams, già base navale cilena, a mille chilometri dall’Antartide, centro ancora più meridionale di Ushuaia nella competizione per il record geografico del nulla, circondata com’è da torbiere inzuppate d’acqua che scende di continuo, in forma nebulizzata o di cortina incessante. Ma il tempo meteorologico è poi capace di cambiare idea in un istante e accende nel cielo non uno bensì due arcobaleni. Che bellezza.
L’autore del carnet ha la capacità di meravigliarsi davanti al reale, quella che noi già plasmati dal virtuale abbiamo in tantissimi casi disimparato. I suoi disegni, per fortuna, funzionano da innesco anche per noi. Così ci fa incontrare l’ultima india yaghan, Cristina «Abuela» Caldéron, l’unica a parlare ancora una lingua che si spegnerà con lei, definitivamente destinata nell’oblio. E Faravelli ricostruisce le vicende tragiche delle popolazioni di Patagonia, letteralmente eradicate dai propri territori per far posto a coloni, allevatori e cercatori di fortune varie. Si scopre per esempio che, tra 1897 e 1901, in appena quattro anni, il 90 per cento degli Selknam scomparvero… Oggi, a commuoverci, resta il ritratto color della terra dell’Abuela Cristina.

Alla fine del suo peregrinare tra acque e fiordi australi, la barca «Adriatica» toccherà Capo Horn? No. Dovrà fermarsi a 7 miglia dalla meta – che è in vista, che è «disegnabile» ma irraggiungibile – e dovrà fare dietrofront. I due oceani che s’incontrano «urlanti» a 55 gradi di latitudine sud alzano onde troppo alte per il suo guscio. Neanche questo conta, però, perché Capo Horn lo avvistiamo nella figura tempestosa di una pagina. E poi un viaggio non è fatto dalla destinazione: è la sua costruzione, un metro dopo l’altro. Faravelli è certo un buon costruttore e fa vivere al suo lettore-osservatore grandi passioni e piccoli dettagli come il coperchio di una lattina raccolto su una spiaggia, che apre un’altra storia. Perché in Patagonia le storie sono scatole cinesi, una ne contiene un’altra.
Nel carnet le note si fanno spazio tra i disegni: scritte in ordinata calligrafia, però in righe fitte. Ovviamente l’editore le ha riportate in un fascicolo «marsupiale» – questo è il bell’aggettivo trovato da Faravelli – che è piazzato nella terza di copertina del volume, come il cucciolo di un canguro.
Oggi noi brancoliamo sui social, sempre a scrollare foto e rari post, in cerca di chissà che cosa: forse, da bipedi tecnologici eppure sempre primitivi, è a causa di quella molla, il richiamo che proprio il «nomade» Bruce Chatwin aveva mirabilmente riassunto nel suo libro Che ci faccio qui?: «Dovremo concedere alla natura umana una istintiva voglia di spostarsi, un impulso al movimento nel senso più ampio. L’atto stesso del viaggiare contribuisce a creare una sensazione di benessere fisico e mentale, mentre la monotonia della stasi prolungata o del lavoro tesse nel cervello delle trame che generano prostrazione e senso di inadeguatezza personale».
Per questo, da stanziali, abbiamo sempre bisogno di cambiare schermata, o scenario, o paesaggio; che la nostra ansia si plachi almeno per un istante.
Ecco che Faravelli ci risulta prezioso. Perché a Capo Horn, anche se non ci arriva, porta con sé tutti noi. Ci fa arrivare laggiù a bordo dell’«Adriatica» e più in là, a guardare negli occhi i pinguini e a misurare quanto siamo piccoli, umani, di fronte alla smisuratezza di quella natura. Se le pagine di un taccuino di viaggio fanno ancora tutto questo, qualche speranza c’è.
Nella foto in apertura, il Faro Les Eclaireurs, vicino a Capo Horn (part.)
- Mauro Querci, giornalista scrittore e fotografo, ha pubblicato il libro Extralarge – microstorie dal lato lungo del mondo. Noi ne abbiamo parlato qui