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Allonsanfàn
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11 giugno. Enrico Berlinguer, il ricordo di un comunista

Quelli della mia generazione non hanno conosciuto Enrico Berlinguer, neppure quelli che – come me – “hanno la fortuna di aver avuto i genitori comunisti”. Io avevo quattordici anni nel 1984 e naturalmente sapevo già chi era Berlinguer, era il Segretario del Partito – con le lettere rigorosamente maiuscole – il compagno che andavamo ad ascoltare in occasione del comizio finale della Festa nazionale dell’Unità. Ma è stato proprio in quei giorni di giugno, quei lunghi giorni di sgomento, di dolore, di attesa e infine di lutto, sincero e partecipato, che mi sono reso conto quanto fosse importante Enrico Berlinguer, cosa significasse per tante persone quell’uomo esile e dal viso serio, di cui però le fotografie in bianco e nero ci restituiscono un sorriso allegro e aperto.

Poi, negli anni successivi, grazie al mio lavoro ho conosciuto tante compagne e tanti compagni di quella generazione che Berlinguer l’ha conosciuto, con loro ho fatto le Feste, da loro ho imparato a fare politica, e quindi posso dire che anch’io, nel mio piccolissimo, ho conosciuto Enrico, perché ho fatto parte di quella comunità.

Per quelli della mia età il ricordo di Berlinguer è legato essenzialmente alla sua morte e a quel grande rito laico che furono i suoi funerali, probabilmente l’ultima volta in cui il popolo della sinistra si ritrovò unito in piazza, con un comune sentire. D’altra parte credo sia onesto riconoscere che Berlinguer, soprattutto per noi che siamo arrivati dopo, sia diventato un mito proprio grazie a quella morte improvvisa, a suo modo eroica.

Al di là di tutto, e soprattutto al di là di tutta la retorica, Enrico Berlinguer è stato un comunista.

Enrico Berlinguer Pci Comunismo
Durante un comizio

C’è una frase di Berlinguer che io amo molto e che penso spieghi meglio di altre cosa significa davvero essere comunista.

“Noi siamo convinti che il mondo, anche questo terribile, intricato mondo di oggi, può essere conosciuto, interpretato, trasformato e messo al servizio dell’uomo, del suo benessere, della sua felicità. La lotta per questo obiettivo è una prova che può riempire degnamente una vita”.

È stato davvero terribile e intricato il mondo che ha conosciuto Berlinguer: la sempre incombente minaccia di una guerra nucleare, i conflitti combattuti, spesso con fino a allora inimmaginabili livelli di ferocia, in quello che si chiamava Terzo mondo, dall’Africa al Sud-est asiatico, dal Medioriente all’America latina, la scoperta che la fine del colonialismo rappresentava non una liberazione per milioni di persone, ma l’inizio di un periodo di terribile povertà, la piena consapevolezza che il progresso scientifico e tecnologico non era necessariamente un elemento di progresso, ma poteva rivelarsi letale per l’ambiente e per la vita stessa dell’umanità. Tutte questioni che Berlinguer ha affrontato con rigore intellettuale.

In Italia gli anni di Berlinguer sono stati segnati dalla violenza politica, dalla reazione rabbiosa di forze oscure contro la crescita sociale e civile del nostro paese, dall’affermarsi di una cultura individualista. Berlinguer ha intuito meglio di altri questi fattori di crisi; io credo ad esempio che la sua riflessione sull’austerità sia di grandissima attualità, perché ci pone di fronte al tema di uno sviluppo che è diventato fine a se stesso.

È importante capire questa storia, per capire da dove siamo arrivati fin qui, ma probabilmente non è questo il punto essenziale per capire davvero Berlinguer e il suo essere ostinatamente comunista. Nella frase che ho citato prima ci sono tre aspetti per me essenziali. Il primo è avere fiducia nei propri valori e consapevolezza dei propri obiettivi, in sostanza credere che la nostra azione possa rendere migliore il mondo e più felice la vita degli uomini. Il secondo è che questa azione di miglioramento tesa alla felicità e al benessere, in cui al centro c’è l’uomo, passa necessariamente attraverso una trasformazione radicale della società. Il terzo è l’essere cosciente che il tuo contributo alla lotta può apparirti insignificante, vano, e che tu puoi anche essere alla fine sconfitto, ma che la lotta è qualcosa che andrà avanti indipendentemente da te e che quindi ne è valsa la pena. E c’è un fortissimo valore etico in questa lotta, perché una vita spesa così è degna di essere vissuta.

Enrico Berlinguer Pci Comunismo
Il malore a Padova

Ho avuto l’impressione negli ultimi anni, accostandomi sempre di più alla figura di Berlinguer, che in lui fosse forte la consapevolezza di questa sua personale sconfitta, anche legata al fatto che una persona della sua intelligenza e della sua capacità d’analisi, doveva aver capito – ben prima di intervenire con le sue dichiarazioni pubbliche – che il modello di una società socialista creato in quei tempi era non solo fallito, ma era contrario ai principi per difendere i quali era nato. La “tristezza” di Berlinguer nasceva forse da questa consapevolezza, ma c’era, altrettanto radicata, l’idea che la lotta dovesse continuare, perché, anche se il comunismo storico aveva fallito, la sfida che esso aveva lanciato era rimasta. Ed è rimasta.

Berlinguer è un uomo del suo tempo. Però, anche noi comunisti in esilio in un mondo che va in tutt’altra direzione, dobbiamo avere la capacità di capirne l’insegnamento di fondo. Berlinguer ci insegna che della lotta c’è bisogno, perché questo mondo è ancora terribile e intricato, perché non possiamo chiudere gli occhi di fronte al fatto che nella maggior parte dei paesi del mondo i due terzi, o i quattro quinti o addirittura i nove decimi, della società sono fatti da poveri, perché lottare per questi ideali è ancora una prova che può riempire degnamente una vita.

Enrico Berlinguer Pci Comunismo
Una immagine dei funerali, il 13 giugno 1984

In apertura, un frame da Quando c’era Berlinguer, film docu del 2014 di Walter Veltroni (Credit:Berlinguer 02 by Gorup de Besanez is licensed under CC BY-SA 4.0.).

  • Luca Billi ha pubblicato il romanzo Anything Goes (Villaggio Maori Edizioni). Anything Goes è anche uno spettacolo teatrale
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