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Cinema civile su Netflix. The Trial of Chicago 7 esalta la rabbia giovane negli Usa del ’68

Aaron Sorkin (New York, 1961), quello della serie West Wing – Tutti gli uomini del Presidente e dell’Oscar per The Social Network è un ottimo sceneggiatore e Steven Spielberg se n’è accorto in anticipo. Gli offre nel 2006 di scrivere The Trail of Chicago 7, sul processo seguito ai celebri disordini scoppiati attorno alla convention democratica nel 1968.

Seguono 14 anni di stallo, perché non si riesce a portare a casa il budget, ci sono cambi in corsa, incontri e scontri con mezza Hollywood coinvolta. Nisba. Alla fine, Sorkin il film lo dirige lui, e Steven S. gli dà giusto un occhio. Tutto pronto per le presidenziali Trump – Biden, doveva esserlo per quelle del 2008: bene anche così. Pronti, via.

Siamo in Usa, al tempo del Vietnam: all’inizio si galoppa nel bianco nero d’epoca. Il vero Lyndon B. Johnson parla in televisione di aumento dei contingenti di leva, di tanti ragazzi da spedire in guerra. Sullo schermo appare anche Martin Luther King, ma giace accasciato ferito a morte. Robert Kennedy, col ciuffo al vento, ricorda in un famoso discorso il Reverendo. Altri spari vanno a segno.

A Chicago si tiene il 35esimo congresso democratico, per candidare alle presidenziali un nome debole, Hubert Humphrey, Richard Nixon ne farà polpette. La sinistra radicale, pacifista, si mette in marcia su Chicago, una marea di giovani, hippies e Pantere Nere comprese. I disordini – coi poliziotti che si tolgono i distintivi per picchiare inpuniti – sono violenti. Stop. Si va a processo con alla sbarra i buoni.

Sono in 7: Abbie Hoffman, Jerry Rubin, David Dellinfer, Tom Hayden, Rennie David, John Froines e Lee Weiner. L’ottavo, la Black Panther Yahya Abdul-Mateen II – Bobby Seale, sta un po’ discosto, non accetta tutela legale. I 7 più 1 sono processati per cospirazione e incitamento alla sommossa: rischiano una pena esemplare. Sono i marmocchi ribelli “che non lavorano”, e in aula trovano gli adulti, i “veri cittadini d’America”, in prima fila e dietro le quinte.

Redmayne a processo, alla sua destra Rylance

La prima parte del film è chiusa nella piccola corte del processo. L’avvocato difensore è un tipo coriaceo e strepennato come da copione, un superbo Mark Rylance – William Kunstler. Il legale dei cattivi, il viceprocuratore che deve reggere l’accusa, ha la faccetta di Joseph Gordon Levitt – Richard Schultz, primo della classe occhialuto e assennato (fioccano le scommesse: si riscatterà?). Il giudice Frank Langella – Julius Hoffman, quello no, lui è orrendo e irredimibile, il peggio in cui si poteva incocciare, tartufesco e ducesco, fa picchiare in separata sede e imbavagliare in aula gli imputati che gli mancano di rispetto.

Quando alla metà dell’opera si torna indietro alle scene concitate dei disordini, intervallate da veri spezzoni in bianco e nero, abbiamo ormai capito chi sono i 7, svelati dalla scrittura ellittica ma efficace di Sorkin. Che fa il passo indietro per riattizzare la tensione, ora che abbiamo familiarizzato con i “ragazzi”. Lo assecondano, nel delinearne le personalità, attori in palla: domina il nobile e intellettuale Tom Hayden di Eddie Redmayne, lo studente democratico che confligge con l’ala floreale e anarchica di Sacha Baron Cohen – Abbie Hoffman (un po’ troppo vecchio per la parte) e Jeremy Strong – Rick Rubin: i quali provocano sempre, fanno un gran casino in aula, aspirano a una sballata rivoluzione culturale.

La polarizzazione Hayden – Hoffman è il secondo punto di fuoco del film (un sotto sistema di buoni – cattivi). Hayden vede Hoffman come un fattone (nella brutta traduzione italiana) che distribuisce margherite e sfrutta la guerra per aver séguito, Hoffman giudica l’altro un politicante in erba (senza allusione alla cannabis). Una posizione che contempla una discreta dose di senno di poi (aspettare i titoli di coda).

Intanto gli altri fanno la loro parte: Bobby Seale, poiché nero, combatte con ancora più rabbia, lo studente democratico Alex Sharp – Rennie Davis prosegue  imperterrito nel conteggio dei caduti in Vietnam, mentre il padre di famiglia John Carroll Lynch – David Dellinger, più simile all’americano medio, di fronte all’ennesimo sopruso, mulina in aria (e non solo) i pugni – ma poi verrà perdonato e incoraggiato da moglie e figliolo.

Quando tutto sembra fottuto, dopo la deposizione (stralciata) dell’ex generale Ramsey Clark – Michael Keaton, sarà Hoffman a cavare di impiccio Hayden, e Hayden, nel discorso finale – dove deve decidere della sua vita in un attimo – riesce a commuovere tutti noi spettatori che stiamo guardando il film sull’iPad (dopo aver fatto un po’ di sala, è stato acquistato da Netflix). Grande Redmayne, grande Sorkin. Buon film che rende omaggio ai court room movie del cinema civile americano e a quel cinema tutto, con cuore, intelligenza e mestiere.

A The Trial of Chicago 7 – Il processo ai Chicago 7 sono state rimproverate alcune leggerezze da commedia, poco consone a un tema cruciale e troppo serio per scherzare. Leggo una stroncatura esagerata su Wired.it Ma è vero semmai che è la velocità di racconto ad alleggerire il tono – e sì, il glorioso cinema civile americano aveva un fuoco e una retorica che impedivano alla fonte certe disinvolture cui ormai (meno il critico di Wired) siamo abituati.

Nella foto di apertura, Baron Cohen e Strong in una scena del film

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