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Allonsanfàn
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Piazza Fontana. Al cinema con Pietro Valpreda e la maggioranza silenziosa

È un po’ strano andare a cercare la tomba di un uomo del popolo, un anarchico per di più, al cimitero Monumentale di Milano, dove sono sepolte le grandi famiglie borghesi lombarde: basta leggere i nomi scolpiti sulle edicole, sopra i sepolcri più imponenti, e si fa il ripasso mentre cammini in mezzo ai viali.

Eppure Pietro Valpreda sta lì e non altrove. Riposa (che verbo inadeguato!) in una celletta sulla ideale linea retta che, secondo le geometrie di Carlo Maciachini, partendo dal Famedio, e transitando per l’Ossario centrale, finisce in fondo, al Tempio Crematorio, in stile greco-dorico, decorato da simboli massonici. Pietro Valpreda (1932-2002), reparto LV dell’Ossario centrale, celletta 34. Val la pena metterci un fiore.

Mi ricordo di aver visto all’inizio degli anni Ottanta qualche film insieme a Pietro Valpreda all’Obraz in zona Garibaldi: “visto insieme”, perché l’Obraz, un cineclub storico, era così piccolo, e popolato ogni sera dalle stesse facce, che era come vedere le pellicole in famiglia, seduti scomodi sulle sedie di legno blu.

Mi colpì la prima volta che lo vidi, o che mi accorsi di lui, che portasse delle scarpette leggere, come da ballo, nere: ai tempi mi sembrarono incongrue, un po’ freak anche per un ex ballerino; erano tipo le Repetto, che molto dopo ho visto ai piedi di tante persone del mondo cosiddetto fashion. Erano forse un imprevisto segno di gentilezza. Che stupido, che mi ricordo prima di tutto questo particolare frivolo.

Comunque: ricordo Pietro Valpreda piccolino di statura, minuto, con la faccia espressiva e segnata, e poi risento il timbro della sua voce con la ben nota erre, che non era francese ma popolare, di queste parti, come spiegò in una perizia un glottologo.

Non ho memorizzato altro, se non che pensavo allora, distraendomi mentre guardavo il film: quest’uomo è rovinato per sempre da quell’enormità che gli è stata rovesciata addosso. Quest’uomo sarà in perpetuo, nei pensieri nascosti, stanchi e ottusi della gente, un vilain, il mostro, l’uomo che ha preso il taxi per cento metri e ha lasciato la bomba in piazza Fontana.

Pensieri nascosti? Ma va’. Non smetterà mai di esistere, pensavo – e ne sono certo ora – un vecchio signore milanese in loden con gli occhiali da presbite e il cappello, un pensionato che ai tempi comprava un giornale di destra – uno di quei prodotti riempiti di luoghi comuni, confezionati per la cosiddetta maggioranza silenziosa (qui un pezzo storico del 1972 firmato da Indro Montanelli) – il vecchio col loden dice e dirà, anche davanti all’evidenza di indagini e processi durati e depistati per decenni, e lo affermerà con una strizzatina d’occhio a San Pietro pure il giorno del Giudizio: “però, per mi, quel balerin l’è sta lù” o “il Valpreda? Ma l’ha recunusù il tassista, che peu il tassista l’era anca del Piccì…

La statua di Montanelli

Il vecchio bastardo della maggioranza silenziosa – che possiede la bonarietà di un boia, mentre si vanta di dire pane al pane e assume posizioni ignobili in via di una presunta genuinità – può dimorare anche in noi, quando per qualche motivo si appisola la ragione, e prendiamo per comfort le scorciatoie dell’indifferenza e della disumanità. Pietro Valpreda, reparto LV dell’Ossario centrale, celletta 34. Val la pena metterci un fiore.

A margine. Lo so, resiste ancora nel mistero insoluto dell’eccidio di Piazza Fontana la teoria delle due bombe, una fascista, l’altra non si sa, con Valpreda “imbrogliato fino a diventar dannato” da finti compagni, e convinto a portare quella che poi non scoppia. Ma è quasi normale: se sei stato chiamato mostro una prima volta, è probabile che lo rimarrai per sempre.

A margine/2 Queste righe sono nate leggendo La Bomba (Feltrinelli) di Enrico Deaglio, dopo aver guardato per caso in tv Sbatti il mostro in prima pagina (1972) di Marco Bellocchio, e ascoltato le parole “Bomba (Boom) Valpreda” nel rap di Guè Pequeno Zona Uno Anthem.

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