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Allonsanfàn
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Il film dell’anno. Mank: la Hollywood di David Fincher batte tutti i cliché, ed è subito spettacolo

Hollywood è quel posto dove, secondo lo sceneggiatore Herman Mankiewicz, detto Mank, possono farti credere che esiste un gorilla alto come un grattacielo di dieci piani e che Mary Pickford è ancora vergine a quarant’anni.

Ciò vale pure per il film su di lui, Mank, girato da David Fincher, il quale può dipingere, sfruttando la nostra voglia di meraviglia, l’affresco di una civiltà – la California del cinema tra la Depressione e la Seconda guerra mondiale – con tutte le pedine già schierate sulla scacchiera – oltretutto il film è in bianco e nero; pedine che noi immaginiamo e conosciamo già, dopo aver visto così tanti film su Hollywood.

Eccoci dunque tra miliardari idealisti e stakanovisti del sogno, bionde buone per decorare i letti e comunisti pronti a tradire la causa, molti viziosi e pochi virtuosi, molti artisti e un esercito di galoppini, e in mezzo il cliché più imperituro dei tanti film sulla Mecca di celluloide. Ossia: il bad loser, il più fool, lo scardinato, lo sceneggiatore geniale e alcolizzato, sarcastico e lesto di battuta pronto a fare a noi spettatori da Virgilio – mostrandoci pure i suoi di diavoli, oltre ai demoni già in giro in California – il tutto per il misero prezzo del biglietto (o di un abbonamento a Netflix).

La storia: Mank, quarantenne, fermo a letto per un incidente d’auto, e controllato a vista da una crew che ne eviti le mattane, ha l’ultima chance e 60 giorni di tempo per scrivere un copione da ghost writer – nessuno infatti vuole la sua firma – e consegnarlo al 24enne e rampante attore e regista Orson Welles. Metteteci in aggiunta un’ordinata orgia di scenografici e cronometrici flash back.

Nasce così Citizen Kane (Quarto potere) e come mai Mank se la prende nel suo script più bello proprio con il miliardario Hearst, quello che più se lo coccolava in salotto? “Hai presente la storia della scimmietta che suona l’organetto?”: la conoscerete guardando il film (e intanto ripasserete anche Re Lear, il don Quixote, e storie assortite di mostri alla Karloff e di regine dalle corone di cartone).

Vero, falso, verosimile: Hearst e Mayer erano davvero così? Orson un iroso stronzo? E Mank così beone e santo, claudicante e “schiena diritta”? Domande futili. Qui la realtà non importa. Perché questo è cinema, anzi grande cinema, probabilmente. Anzi metacinema, arte che riflette su se stessa, si sarebbe detto al Dams.

Mank è sì un film d’attore, il gigantesco e talvolta molesto Gary Oldman, ma è più ancora un film di regista, l’immaginifico e scaltro David Fincher, qui desideroso di darci la sua versione del mondo in cui ha sognato di crescere e di cui – questo è per certo – sa usare alla perfezione tutti i meccanismi narrativi, nuovi e d’antan. Vero, falso, verosimile: che importa. Mank è puro spettacolo. Godetevelo.

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