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Misteri italiani. Una serie Netflix e un ricordo di SanPa, paradiso e prigione

Le prime immagini sono d’epoca. È il 1978 e siamo a San Patrignano – una cascina, un pollaio, un pezzo di terra – destinata a diventare la più grande e osannata e contestata comunità per il recupero dei tossicodipendenti in Europa. Vincenzo Muccioli, fondatore-leader-santone, primo piano e un’espressione che da accogliente si fa minacciosa, scandisce le parole: «Non è la droga a venire da voi, siete voi ad andare dalla droga. Qui se ci entrate ci state, io non vi lascio andare via».

Quando cerchi la verità puoi trovarne più d’una: è tutto in questa frase, riportata sulla locandina, il senso di quanto raccontato in Sanpa, luci e tenebre di San Patrignano, prima docuserie (da cui la comunità ha preso le distanze, dissociandosi e definendola “versione unilaterale”) prodotta in Italia da Netflix su Muccioli e sulla comunità di Coriano, 12 chilometri da Rimini, «costruita a sua immagine e somiglianza» come ricorda uno dei tanti ex (ex giovani, ex tossici, ex fan, ex detrattori) intervistati.

locandina serie SanPa su Netflix

Nelle cinque puntate da un’ora (scritte da Gianluca Neri con Carlo Gabardini e Paolo Bernardelli, con la regia di Cosima Spender e la collaborazione di Andrea Muccioli, figlio di Vincenzo) noi che allora già c’eravamo riviviamo l’Italia a partire dalla fine degli anni Settanta, quella degli scontri di piazza, dei terrorismi rosso e nero, della contestazione studentesca, dell’eroina e dell’Aids che avrebbero spezzato la vita di tanti.

Diciassette anni di storia (Muccioli morirà nel 1995) e lui, raccontato con immagini tratte da archivi tv e video amatoriali, testimonianze e interviste.

Ci sono voci di uomini e donne che entrarono tossici persi e uscirono ristabiliti. Che ricordano «il carisma incredibile» e l’amore per quell’uomo grande e grosso e discusso «e mai diplomato perché era un “somarone”» dice il fratello Pier Andrea Muccioli, «appassionato di riti esoterici e sedute spiritiche, di cani e cavalli». Riti esoterici che avrebbero attratto (così alcuni lasciano intendere, ma non si è mai saputo con certezza) quelli che rimarranno i più forti sostenitori e finanziatori di Sanpa, Gian Marco, morto tre anni fa, e Letizia Moratti («Chiesero aiuto a mio padre, mio padre diede loro aiuto» si limita a commentare Andrea Muccioli mentre Letizia Moratti, interpellata dagli autori della serie, ha rifiutato di rispondere).

E ci sono voci di uomini e donne che ricordano Muccioli con gratitudine, anche con affetto, ma non tacciono accuse circostanziate sui metodi brutali, i ragazzi incatenati, picchiati e rinchiusi in celle da paura («un lager»), gli stupri mai denunciati. Una deriva culminata con il suicidio di due giovani e l’omicidio di Roberto Maranzano, ospite della comunità.

Della San Patrignano dove quasi 30 anni fa ero andata a documentare le polemiche per le violenze, “il processo delle catene” e il processo per l’omicidio, nelle cinque puntate di Sanpa ho ritrovato moltissimo. Le testimonianze di tanti (ex) ospiti mettono bene in evidenza la spaccatura tra l’osanna dell’opinione pubblica, tutta per quell’uomo-santone che si era votato a chi era ignorato dallo Stato e abbandonato a se stesso, e la diffidenza di chi – a partire da qualche giornalista – cercava di capire cosa succedesse davvero là dentro.

Io ricordo una comunità che si era fatta piccola città e grande azienda, che potevi visitare solo accompagnato dai ragazzi dell’ufficio stampa (che non ti lasciavano mai, neppure un secondo), dove tutti ti sorridevano mentre cucivano in sartoria, badavano a purosangue straordinari, si occupavano dell’orto, cucinavano e mangiavano nella grande mensa. Ma dove respiravi un’aria strana, tesa, e dove ti sentivi osservata e controllata: mai ho potuto entrare nella macelleria (là dove venne ucciso Maranzano) e nel reparto manutenzione, che si sussurrava fosse il luogo di punizioni tremende.

Ricordo la folla di poveri ragazzi schiavi dell’eroina accampati per giorni e per notti sotto la pioggia o sotto il sole, fuori dai cancelli. E ricordo Muccioli che usciva e ne indicava due o quattro o dieci. Erano quelli “ammessi” e gli altri restavano per strada.

Ricordo i genitori dei tossicodipendenti che lo ringraziavano in lacrime («ha salvato la vita a mio figlio» mi disse una madre «e ha salvato anche noi»). E ricordo lui che, prima di farsi intervistare, mi fece fare anticamera per sette ore sette. Per poi (non) rispondere alle mie domande, che erano quelle di tutti, sulle violenze, le costrizioni, l’omicidio.

Era una comunità diventata grandissima, dove gli ospiti erano più di duemila, e per gestirla «si passò alla logica del controllo, di tutti e di tutto» dice nella docuserie Fabio Cantelli, che io ricordo non solo come responsabile dei rapporti con i giornalisti, ma anche studente di filosofia, un passato di droghe, sieropositivo quando di Aids si moriva quasi sempre. Cantelli, tra i più stretti collaboratori di Muccioli, oggi è uno dei più lucidi interpreti di quanto è accaduto in quella comunità. «Più Sanpa cresceva, più crescevano il potere anche politico di Vincenzo e il suo delirio di onnipotenza. Ho cominciato ad avere dei dubbi, a pensare che qualcosa non andasse. Volevo credere a quello che dicevo ai giornalisti ma avrei voluto dire altro. Provavo un affetto fortissimo per Vincenzo ma non ce la facevo a fare il megafono della propaganda, mi sentivo l’ex tossico da vetrina» racconta. E le sue riflessioni – come quelle di Walter Delogu che di Muccioli fu autista e guardia del corpo, che per lui finì in carcere e che poi accusò ai tempi del processo per l’omicidio – sono da seguire in tutte le cinque puntate, perché aiutano a capire cosa è stata quell’esperienza.

Vincenzo Muccioli è morto nel 1995 a 61 anni. «Di cosa sia morto non l’ho saputo e neanche mia mamma, nessuno ce lo ha mai detto» dice il fratello Pier Andrea. La causa dovrebbe essere l’Aids «ci aveva detto di essersi contagiato in comunità» ricorda Fabio Cantelli, «sostenendo di essersi ferito con un ragazzo ammalato». Ma se anche fosse stato omosessuale, perché non ammetterlo, si chiede. Un’ipotesi sempre smentita dalla famiglia, dal figlio Andrea e dalla moglie Antonietta che parlò invece di “male dell’anima”, conseguenza «degli attacchi del tribunale che avrebbe strumentalizzato i ragazzi che decisero di denunciare».

Cosa resta di quella storia? Che non è stato tutto bene o tutto male.

Spiega Carlo Gabardini, uno degli autori: «Raccontiamo tutto senza fascinazioni ma vivendo il contraddittorio esistente. Risultato? Su molti aspetti, la docuserie fornisce verità definitive. Ma alla fine, l’insieme, rimane comunque un dilemma».

Lo stesso dilemma che – prima dei titoli di coda – fa dire a Fabio Cantelli: «Sono quello che sono grazie a Vincenzo e a Sanpa. Ma anche nonostante Vincenzo e nonostante Sanpa».

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