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Giovanni Mariotti, Piccoli addii di un grande scrittore, andando con grazia alla deriva

Con il ritardo della pigrizia nutrita dall’apocalisse del Covid, scovo solo oggi online un testo (100 pagine virtuali) di Giovanni Mariotti (Pietrasanta, 1936).

Piccoli addii: ecco il titolo-programma di un e-book della collana Microgrammi di Adelphi (ma esiste anche l’esemplare su carta) ed è già uno sviante ossimoro; significa addii ossia qualcosa di solenne – donde la contraddizione – a cose piccole le quali però solo in apparenza si rivelano infime e irrilevanti, come le calze velate per le donne o le pellicce di volpe e i salvadanai, oggetti perduti che richiamano un’altra stagione della vita – ma le prime segnarono per le ragazze di campagna l’apprezzamento dell’immateriale (e la lettura di Grand Hotel), e pellicce e salvadanai dettero in qualche modo al bambino Mariotti informazioni miste sulla natura, il sociale o il sacro.

Così una stagione trascorsa, tema del libro, si compone, a frammenti, elzeviro per elzeviro – tali in origine erano queste pagine – in una sorta di romanzo collettivo oltre che individuale e richiamante nella seconda serie di scritti le cerimonie di un tempo, dall’iscrizione al liceo classico all’approdo in treno nella Milano del boom, liminali per la vita civile e anzi, essendo Scene di debutto in società, gratificate di un titolo dall’esprit bazachiano.

Mariotti, convinto dall’amica di e-mail Rita Copioli, si è deciso a rimettere insieme una serie di pezzi estivi scritti nel 2004 per Il Corriere della Sera, una sorta di personale enciclopedia (altro ossimoro) di cose perse, e li ha integrati con ritagli e fogli custoditi dalla moglie in una vecchia scatola di scarpe (umiltà dei mezzi e understatement e viceversa). Valeva la pena? Valeva eccome.

Ormai vecchio, lo scrittore toscano aveva già affrontato in pagine nitide il trascorrere del tempo – quello che cambia negli anni la planimetria degli appartamenti nei condomini dietro a Corso Vercelli a Milano e rende fantasmi gli inquilini che abitavano una volta al piano di sotto – nell’incanto de L’amore lungo (Et al., 2012) oppure aveva ritrovato nella memoria sua e in pagine altrui una doppia giovinezza lucchese, da povero e da ricco, passata in amicizia con lo scrittore dimenticato Fabrizio Puccinelli – delirante e marginale, caduto morto un giorno per strada a Roma, e resuscitato da Mariotti nello struggente Gabbie: il “romanzo” di due compagni di banco (Marsilio, 2006).

Va detto che i miracoli – fermare il tempo, recuperarlo, riassestare reputazioni – non stanno nel carnet di Mariotti che è troppo disilluso e ironico, e letterato di profonda e diffidente cultura, e troppo in stato – ribadiamo – di perenne snobistica sottovalutazione di sé, per credere di avere tali poteri.

Non bastasse, l’oggi è un momento brutto davvero, da “cerimonia degli addii”, e ci si mettono pure le case editrici che non hanno più fiducia nella carta, il pubblico che scarseggia e aspetta grandi botti di petardi e non il balenante chiarore di un cerino. Eppure… Eppure abbiano tra le mani un altro libro insperato dell’autore di Matilde e Storia di Matilde (Anabasi 1993, Adelphi 2003), che fu incensato per tutto quel che vale da Pietro Citati, o de Il bene che viene dai morti (Et al., 2011), premio Bagutta ex aequo l’anno dopo, nel 2012.

Eppure queste storie di metà Novecento, raccontate da un uomo che per ottant’anni va garbatamente, con grazia, alla deriva come se viaggiasse su un aerostato (altro marchingeno d’antan), nutrendosi degli abbagli e dei paradossi, delle illuminazioni e dei kairòs anche a scoppio ritardato del suo esistere – il Mariotti che si scopre oggi in uno specchio e decide di lasciare a riposare lì il vecchio che ci vede dentro – queste storie, questi “congedi”, come li chiama, sono bellissimi.

Arrivano da un mondo che non c’è più, che vede la fine della civiltà contadina e l’entrata in scena di una borghesia minuta o boriosa, illusa di proporsi come “classe dirigente” – su cui Mariotti ragazzo, orfano di padre, figlio di una magliaia incapace divenuta serva, ride esilarato dalla disperazione neanche fosse l’odierno Joker: “Vuoi proprio sapere che cosa voglio essere, mamma? … Nulla” – e sono storie fatte di una scrittura che è limpidezza e sguardo smagato, poesia trasparente di oggetti sentimenti situazioni e, insieme, grammatica elementare di comprensione. Saggezza sghemba e umana partecipazione – nel senso anche letterale di appartenenza all’umanità – alla vita e al tempo che si fanno implacabilmente beffe di noi.

Ma spetta ora ai lettori ritrovarsi per esempio su vaporiere che vanno a ottanta all’ora tra Pisa e Viareggio ma paiono sfasciarsi per lo sforzo e forse sono meno avventurose delle Frecce odierne ad alta velocità, quelle che non si fa a tempo a leggere il nome della stazione quando l’attraversano, e fanno mormorare come tra sé e sé a Mariotti in un quasi metafisico stupore: “Dove sono?”.

Viene solo voglia di leggere e rileggere tutto lo scrittore di Pietrasanta, il più pazzo e il più savio, quello che scherza con la letteratura (organizzandola come un Trivial Pursuit) o la prende assolutamente sul serio, che cambia forma di romanzo in romanzo e tutto ciò – il nostro desiderio di leggere e rileggere – non per ricostruire la storia di Giovanni Mariotti nella storia della nostra letteratura, l’avventura editoriale con Franco Maria Ricci o i tantissimi, diversissimi assoli (dai titoli già citati, al viaggio imperdibile a Butroto, Feltrinelli, al suo Lazzaro rivisitato per Mondadori), ma solo per il piacere del testo, di giocare e capire con lui. E come lui trovarsi a camminare, in un’antica primavera parigina, fuori da Notre-Dame, “grande hangar invaso dall’ombra”, con la “coscienza di essere vulnerabili” e “in preda a un sentimento di precarietà e a leggeri capogiri”.

IL LIBRO O L’E-BOOK Giovanni Mariotti, Piccoli addii, Microgrammi, Adelphi

 

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