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Anna Wiener, La valle oscura: un memoir da Big Data Valley che sembra un romanzo

La valle – uncanny nell’originale e oscura, dantesca e un po’ più infernale, in versione italiana – è quella dell’ultima (o penultima, ce n’è sempre una nuova) grande corsa all’oro: la Silicon Valley che attira, tra i ragazzi svegli delle sue startup emergenti e vincenti, una giovane newyorchese, Anna Wiener – la quale oggi è corrispondente per la tecnologia sul New Yorker, non per caso.

La ventenne Wiener lascia gli impieghi frustranti nell’editoria al tracollo di Manhattan – portare il caffè ai colleghi, vestirsi bon ton alle riunioni, spettegolare degli scrittori ai party – per raggiungere l’assai più pratica e tecnologica San Francisco in preda alla febbre di Big Data. Ovvero popolata dai tanti nerds che, trangugiando bibite caloriche e abbigliati come andassero a un’escursione in montagna, issano la bandiera del software sul pesante e ormai declinante mondo dell’hardware.

Parentesi: l’editoria in cui si dibatteva Wiener è stata terremotata dalla ben nota tecno-azienda, creata non per diffondere i libri in quanto veicoli di cultura, ma semplicemente perché erano la prima merce mal smistata da smistare bene balzata all’occhio di un geniale imprenditore ora multimiliardario.

A San Francisco, tutto bene, come i primi guadagni dell’ex stagista frustrata? Sembra. Perché la rivoluzione economica che spiazza la pioniera Wiener, e le suggerisce pagine acute di sguardo e sveglie nell’analisi, mentre si muove maldestra neanche fosse Buster Keaton in una cristalleria, funziona fino a quando si scopre che non proprio tutte le startup rendono capitalisti al pari dell’inventore di un social network odiato da tutti (e mai nominato).

Siamo tra il 2013 e il 2016, periodo che, “a seconda della persona con cui parli”, chiosa Wiener, è l’apice o l’inizio della fine per le startup della Valley – l’era dei cosiddetti unicorni – in cui venivano valutate in miliardi di dollari.

Un mutamento quasi antropologico, però, si è verificato ed è evidente. Come nota Wiener a pag. 73, la (spesso) sarcastica debuttante si trova a lavorare tra coetanei privi della “supponente idea” che l’arte sia una “cura esistenziale”, che musica e letteratura siano le uniche cose di cui si possa sentire la mancanza, che esistano attività più genuine e appaganti del software, come le capitava di constatare discorrendo con gli intellettuali di New York.

Semmai, nella selva oscura di Silicon Valley, tutto il settore cultura è un altro campo da esplorare con l’ennesima app, attraverso la quale raccogliere notizie che ci rendano ancora più facili e inermi prede di chi vende o di chi vuole comandarci – in fondo, Big Data serve a questo, no?

Bello e istruttivo il memoir cioè il diario giornalistico, il reportage personale di Wiener. Adelphi, che lo traduce meritevolmente, si dimostra però molto “vecchio mondo” quando ne confeziona il risvolto. La parola memoir si legge solo in piccolo e in alto dov’è scritto il titolo originale, e la testimonianza – dettagliata e profonda, allarmante e divertente quanto più è vera, cioè nata da reale esperienza – diventa “uno straordinario rapporto che ha assunto quasi da solo la forma di un romanzo”. Neanche, e tutt’al più, di un testo misto. O di un saggio. Chissa perché. Forse quelli di Big Data hanno avvertito che noi italiani i memoir li acquistiamo e li digeriamo meglio se presentati così. Come cari, vecchi, buoni romanzi. A proposito: dal romanzo trarranno un film. Doppio slurp.

IL LIBRO Anna Wiener, La valle oscura, traduzione di Milena Zemira Ciccimarra, Adelphi

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