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A German Life, storia di chi attraversa l’orrore senza rendersene conto

«Non sapevo. Non avevo idea. Vedevo cosa stava succedendo ma non avrei mai pensato. Così come la maggior parte delle persone. No, non mi sento colpevole».

Seduta su una poltrona al centro del palcoscenico, accanto a sé solo un tavolino e un cuscino, Franca Nuti, 92 anni, attrice di una bravura che commuove, interpreta la storia di una donna tedesca – ormai molto vecchia – che visse il tempo delle atrocità del nazismo, della persecuzione degli ebrei, della seconda guerra mondiale.

È A German Life, una vita tedesca, scritto nel 2019 da Christopher Hampton (due volte premio Oscar per Le relazioni pericolose e The Father), portato in scena dal Piccolo Teatro di Milano con la regia di Claudio Beccari. La commedia è tratta dalle testimonianze di Brunhilde Pomsel, una delle ultime testimoni del regime nazista, ed è basata sul documentario A German Life di Christian Krönes, Olaf Müller, Roland Schrotthofer e Florian Weigensamer (in Italia si può vedere su Chili) che raccoglie una sua intervista realizzata nel 2016, pochi mesi prima della morte a 106 anni di età.

Nata a Berlino nel 1911, cresciuta nel mito dell’obbedienza, Brunhilde Pomsel lavorò come segretaria per un broker assicurativo ebreo, poi per la German Broadcasting Corporation, infine – dal 1942 al 1945 – per Joseph Goebbels, ministro della propaganda del Führer, teorico dello sterminio del popolo ebraico.

Franca Nuti le dà voce e noi la ascoltiamo raccontare la vita durante il nazismo, quella che lei chiama “l’emigrazione” degli ebrei («se ne andavano tutti, da un giorno all’altro non c’erano più»), il lavoro a fianco di Goebbels, i bombardamenti.

Ma se la storia la si conosce, quello che colpisce è il personaggio di questa donna qualunque che attraversa l’orrore senza rendersene conto, poco colta e poco propensa a farsi domande, che non ha mai un’idea propria e per questo subisce quelle degli altri.

Ciò che sconcerta, fino a far male, è l’indifferenza che Brunhilde mostra nei confronti delle mostruosità che ha vissuto, in quel suo intercalare di «Non sapevamo», «Non credevano che i campi di concentramento fossero quello che erano», «Non avevamo scelta».

C’è qualcosa che tormenta – lo sentiamo dentro – mentre si ascolta Brunhilde parlare con quel suo tono di voce leggero di come non si accorse mai di niente, né degli orrori del nazismo, né delle atrocità compiute dal Terzo Reich, né dei sei milioni di ebrei uccisi nei campi di concentramento. Barbarie conosciute solo alla fine della guerra: «Prima era stato tutto nascosto».
La voce si altera soltanto in pochi passaggi, come quello in cui racconta gli ultimi giorni nel bunker di Hitler, dove aveva seguito Goebbels, e dove la raggiunsero la notizia del suicidio del Führer il 30 aprile 1945 e poi quella della morte dello stesso Goebbels, che il 1° maggio si uccise con sua moglie Magda, dopo aver avvelenato col cianuro i loro sei figli. «Sei bambini» grida Brunhilde. «I suoi figli. Perché? Perché far morire dei bambini?».

Ma presto il tono torna tranquillo nel ripercorrere i momenti in cui cucì la bandiera bianca, quando lei e i pochi sopravvissuti si arresero alle truppe sovietiche. E i cinque anni di prigione a Buchenwald, al Gedenkstätte Berlin-Hohenschönhausen e a Sachsenhausen che le inflissero i russi. Nel ricordare una vita solitaria, e quel figlio concepito con un uomo già sposato e per questo mai fatto nascere. Fino alla vecchiaia in un pensionato, dove pranzava sola in camera sua, «perché non sopporto tutti quei vecchi!».

Cos’è che mette in affanno chi ascolta la storia di Brunhilde?

È quello che a poche battute dalla fine rivela lei stessa. «Non avevo idea, non mi sento colpevole» dice e ripete. E poi: «Succede anche adesso. In televisione vediamo cose orribili e poi? Spegniamo la tv e ce ne andiamo a cena».

Perché sì, è vero. È questo. C’è parecchio di Brunhilde Pomsel in quello che siamo noi oggi. Noi che chiudiamo gli occhi sui bombardamenti, sulle stragi in mare, sui bambini uccisi… Indifferenti. «Sapevo ma… Vedevo ma non immaginavo…».

Non è solo la banalità del Male, come ha scritto Hannah Arendt nel famoso saggio, ma anche la sua mediocrità, la sua normalità. E la forza di A German Life è proprio nell’aver indagato l’accettazione quotidiana di mostruosità che potrebbero tornare, se non manterremo alta la guardia e continueremo a sottovalutare i segnali d’allarme.

 

A German Life di Christopher Hampton, regia di Claudio Beccari, con Franca Nuti. Produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa.

Foto in apertura: photo©MasiarPasquali

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