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Intervista. Lidia Ravera: in “Avanti, parla” il tempo supplementare di chi scelse la lotta armata

Giovanna ha i capelli bianchi, vive sola in una bella casa affacciata sul Tevere a Roma, non è felice né infelice e non parla con nessuno. È come se vivesse uno sconfinato tempo supplementare dopo una partita che per lei si è chiusa presto, quasi quarant’anni prima, quando per la smania di cambiare il mondo si potevano commettere sbagli così gravi da pesare sulla coscienza per sempre. Un silenzio, il suo, che va in mille pezzi quando nell’appartamento accanto arriva una giovane famiglia che la “riporterà nel mondo”.

Giovanna è la protagonista di Avanti, parla (Bompiani), ultimo e intenso romanzo di Lidia Ravera che, forse per quel caso che “disordina la vita” (e al caso Lidia Ravera ci crede, eccome), è uscito proprio nei giorni dell’arresto a Parigi di un gruppo di ex protagonisti della lotta armata degli anni di piombo.

Giovanna ha la stessa età dei terroristi arrestati recentemente a Parigi. Ma, a differenza di loro, ha pagato con la detenzione il suo conto con la giustizia. Tu che ne pensi?

«Lo strumento della letteratura è l’unico che consente di sospendere il giudizio. E io in Avanti, parla non giudico, io racconto una storia. Gli arresti di Parigi riguardano persone di 70 e più anni: se hanno capito di aver sbagliato non ha senso metterle in galera perché la galera è rieducazione e non punizione; nel caso contrario è un po’ tardi per farglielo capire. Personalmente credo che abbiano compreso i loro errori. Chi come me ha vissuto gli anni Settanta, sa che all’epoca c’era una guerra in corso. E sa che un gruppo di persone ha pensato che la rivoluzione fosse alle porte e ha commesso omicidi politici in base a valutazioni tragicamente sbagliate. Io con loro non ho alcuna connivenza e il mio giudizio anche all’epoca è sempre stato molto duro. Però mi rifiuto di considerarli terroristi perché i terroristi sono quelli che sparano nel mucchio, sono quelli della bomba alla Banca dell’Agricoltura in piazza Fontana a Milano che per me, che allora ero un’adolescente, ha significato la perdita dell’innocenza, un grandissimo dolore. I terroristi sono quelli che uccidono per uccidere, per creare terrore. I militanti della lotta armata sono altro: sono persone che hanno fatto quello che hanno fatto e hanno sbagliato ma all’interno di un progetto politico. Quindi non possono essere considerati dei delinquenti comuni».

Giovanna è una donna della tua generazione. Quante Giovanna hai conosciuto?

«Una l’ho conosciuta bene. Era una donna, una ragazza all’epoca. Con lei ho attraversato gli Stati Uniti in autostop, in uno di quei viaggi iniziatici che si facevano allora. Ma con lei non ho mantenuto rapporti perché le scelte di vita ci hanno separate. Ho poi “sfiorato” molte e molti altri che sono finiti nella lotta armata. Per quanto tutti facciano finta che non sia così, la nostra origine era la stessa, era l’area della sinistra extraparlamentare. Alcuni si sono ravveduti, altri hanno pagato il loro debito con la giustizia, altri sono morti, altri ancora sono scappati in Francia approfittando della dottrina Mitterand».

Perché parlare ora di terrorismo? Perché arriva adesso questa storia?

«Io non volevo parlare di terrorismo, io volevo raccontare di una donna della mia età che fa i conti con il suo passato e che in quel passato ha un errore così grave. Tutti noi abbiamo un rapporto con i nostri io dismessi: in una vita sono tanti e farci i conti non è facile perché a 60 anni sei un’altra persona rispetto a quando ne avevi 20. Con lo strumento della letteratura, che è lo strumento che io so usare, volevo immaginare come poteva essere l’invecchiare. Che per la mia generazione è particolarmente difficile perché siamo stati quelli che hanno messo al centro della loro rivoluzione la giovinezza. E si sono costruiti una caricatura di maturità per poter meglio scappare di casa e “sputare in testa” ai padri e alle madri. Quando poi l’invecchiare ce lo siamo ritrovati addosso, abbiamo avuto delle reazioni diverse e non semplici. Anche perché ora viviamo in una società che disprezza la maturità, l’esperienza, la memoria, che rifiuta l’approfondimento, nella quale dovremmo essere tutti degli adolescenti felici. Io ho scritto 33 romanzi che sono una autobiografia collettiva della mia generazione, e Avanti, parla non è che uno dei capitoli. Mi interessava la colpa e il rapporto tra la colpa e il tempo e quindi ho raccontato di una donna pentita, ma pentita veramente. Da quando, dai romanzi del ‘900, la psicologia è entrata nella narrativa non esistono più i cattivi. Il Raskòl’nikov di Dostoevskij (Delitto e castigo è una sua opera giovanile) non aveva un’infanzia, dei ricordi, una storia personale che gli facesse perdonare, comprendere, era cattivo e basta. Dal ’900 in avanti, da Freud in avanti, noi giustifichiamo tutto. Perché se racconti un essere umano, trovi che dentro c’è del buono e del cattivo. Ecco io ero animata da questi confusi desideri e soprattutto volevo chiarire a me stessa il mio rapporto con la violenza politica. Quella di un decennio nel quale mi sono formata: negli anni Settanta avevo 20 anni».

Ti somiglia Giovanna? Ha qualcosa di te?

«Ha qualcosa di me perché tutti i personaggi hanno qualcosa del loro autore. Giovanna mi somiglia nel suo non essere autoindulgente. Non ha indulgenza per se stessa, non è una che giustifica, vede i suoi errori e ci convive dolorosamente come le persone che non chiudono gli occhi. È severa con se stessa, e continua a punirsi. Non ha mai ammazzato nessuno, ha pagato il suo debito con la giustizia, ha fatto 9 anni di prigione e potrebbe avere una vita normale. Invece non riesce a metabolizzare il suo errore del passato, l’aver militato nella lotta armata, così come non si perdona un altro delitto, “l’unico per il quale non sono stata processata e condannata” dice, che è aver abbandonato suo figlio alla nascita. Un dolore quest’ultimo rimosso, ma che l’irruzione nella sua vita della famiglia dei vicini di casa fa tornare fuori. Un’amputazione la sua a favore di un ideale distorto e sbagliato, ma di giustizia sociale».

La giovane famiglia che “fa tornare nel mondo” Giovanna non sa nulla di terrorismo. Secondo te è possibile oggi riuscire a stabilire un contatto con i giovani su quell’epoca? Oppure ormai la distanza è incolmabile?

«Secondo me chi ha vissuto quegli anni ha il dovere di testimoniare. E di raccontarli i Settanta, che non sono stati soltanto anni di piombo. Ma anni di conquiste importanti per la nostra società: il divorzio, l’interruzione di gravidanza, il nuovo diritto di famiglia, la rivoluzione nell’arte e nel teatro… Anni di ricerca. Affascinanti. La famiglia che riporta Giovanna alla vita è una famiglia giovane, bella, gentile, intelligente e molto amabile che nulla sa di quel periodo. Non inchioda Giovanna al suo passato per assenza di conoscenza».

Malvina, figlia della giovane coppia, fa irruzione nella reclusione autoinflitta di Giovanna. Nel tuo libro precedente, Tempo con bambina, raccontavi di un’altra bambina, Mara. È un caso? O dipende dal tempo della tua vita, che ti vede nonna di due nipotine? 

«Penso che i primi anni e gli ultimi anni di vita si attraggano a vicenda. Moltissimo. Ricordo quando sulla terrazza della mia casa sull’isola mio padre, che aveva più di 90 anni e viveva in un mondo tutto suo, improvvisamente sorrideva e usciva dal suo isolamento all’arrivo di qualche mio amico con i nipotini. Io sono molto affascinata dai piccoli, e amo moltissimo le mie due nipotine. Mi piace entrare in relazione con i bambini, osservarli. Per loro è uscito pochi giorni fa per Rizzoli il mio secondo libro per l’infanzia, La bambina che non dormiva mai, con le bellissime illustrazioni di Monica Barengo».

A un certo punto la storia di Giovanna sembra scivolare verso un finale tragico. Poi gli ultimi tre capitoli cambiano passo e le sorti di Giovanna si risollevano. Hai scelto un buon finale perché viviamo un tempo oscuro?

 «Sono convintissima che nella vita esista il caso. E per quanto Giovanna nella severità verso se stessa abbia preso una decisione infausta, il caso disordina ogni cosa. A me è molto piaciuto buttare tutto per aria nei tre capitoli dell’epilogo. E poi quando un personaggio è costruito bene, e Giovanna sicuramente lo è, ti porta lui dove deve andare. Giovanna quel finale tragico non voleva che fosse un finale. E così mi ha portato via, là dove qualcosa forse è finito. Ma dove qualcosa anche può ricominciare».

 

Il libro. Lidia Ravera Avanti, parla (Bompiani)

 

 

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