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Allonsanfàn
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G8 2001, un video di pochi secondi per ricordare Genova tinta di sangue

È la prima volta che riesco a scrivere del G8 a Genova nel 2001. Scrivere è un esercizio di razionalità, dovresti ordinare e dare un filo ai pensieri ma è difficile trovarne che non siano stati già scritti e pensati su quel massacro di persone e libertà. Ero lì per lavoro, e già questa è un’anomalia che mi ha creato tormento in quei giorni. Facevo corrispondenze per Radio Città Futura di Roma, ma io sono una zecca da sempre (non so se “zecca” sia soltanto romanesco o universale, è il termine con cui con disprezzo ci chiamano, chiamavano, i fascisti). Era un ruolo anomalo, mi sentivo fuori posto. Arrivammo in treno con due colleghi dell’agenzia radiofonica Area e due dell’Adnkronos verso l’ora di pranzo di giovedì 19 luglio. La militarizzazione della città era evidente, ma dovevo andare di corsa a coprire il corteo per i migranti, e poi, una volta raggiunta la piazza, la prospettiva cambiava e anziché migliaia di agenti mi trovai davanti decine di migliaia di persone. Persone? Porca miseria erano tutti i miei compagni e compagne di una vita, moltissimi ragazzi naturalmente, ma a me colpiva ritrovare volti e corpi un po’ più logorati dal tempo che ho visto praticamente in ogni manifestazione da quando ho iniziato a frequentarle, dagli anni ’70.

Lincontro delle zecche di tutte le età

La prima mezz’ora è stata tutto un abbracciarsi e baciarsi, con compagne e compagni del collettivo vicino a Lotta Continua che frequentavo ai tempi della scuola e con quelli di Democrazia Proletaria con cui ho militato dopo, anche con quelli di sigle con cui tanti anni prima ci guardavamo “in cagnesco” per egemonizzare le piazze. Ho pensato che era bellissimo, in mezzo a una marea di colori, tra bandiere e vestiti così diversi: mi è venuto in mente che fosse una sorta di passaggio di consegne, tra gli anni ’70 e quel giorno c’erano state di mezzo le grandi manifestazioni contro i missili degli anni ’80, il blocco dei camion militari a Comiso, gli arresti a centinaia, senza reagire, mentre a Montecitorio votavano per installare i missili di Reagan, la scelta della nonviolenza, più di un milione di persone in piazza per la pace negli anni successivi. Adesso toccava a loro, a quei mocciosi sbarbatelli che protestavano contro le multinazionali talvolta con le Nike ai piedi e ridevano quando gli facevamo notare la contraddizione, e ci sfottevano, facendoci notare che con le nostre borse di tolfa artigianali indosso, in un’altra epoca, non avevamo ottenuto poi granché. Certo, avrei dovuto capire che i cecchini schierati sui tetti lungo tutto il percorso non erano il preludio di una festa, ma i tamburi, i canti, la gioia di ritrovarmi con sorelle e fratelli per i quali era ancora giusto ribellarsi mi aveva un po’ offuscato la mente.

Il vecchio signore mi disse una cosa del tipo: “Sono un cittadino genovese e nessuno può impedirmi di circolare liberamente nella mia città”

Il giorno dopo l’intenzione dei manifestanti era di violare la zona rossa. Decisi così di mettermi all’interno della zona rossa a piazza Dante, dove un gruppo di compagni mi aveva avvisato che avrebbero provato a entrare. Mi sentivo ridicolo con il pass della stampa al collo e un centinaio di celerini alle spalle in attesa di gonfiare di botte i manifestanti, perché l’intenzione comunque era chiara, anche se ancora sembrava far parte di una contrapposizione naturale. Verso le 2 del pomeriggio, quando la sirena diede il via all’inizio dell’attacco alla zona rossa, i cancelli metallici che dividevano la città della polizia da quella dell’umanità cominciarono a vibrare sotto i colpi delle persone. Chi con le mani, chi con un bastone, chi con una spranga; un tale si era portato le cesoie, qualcuno in gruppo che si lanciava per prendere a spallate la recinzione. Molti manifestanti avevano palloncini colorati con la scritta “No debt”, li lanciarono anche oltre la cancellata. Ne raccolsi uno e lo tenni sotto il braccio senza guardare dietro, sperando che le guardie venissero a dirmi qualcosa, ma non se ne curarono. Con l’altro mano tenevo il telefono, avvisai lo studio di tenersi pronti al collegamento perché avevo deciso d’intervistare in diretta chi fosse riuscito a entrare. Fanculo alla zona rossa, i manifestanti furono eroici, messi sotto il tiro degli idranti, che gettavano acqua con una pressione fortissima, non arretrarono di un passo. Dopo circa un’ora un omone che sembrava un lottatore di wrestling diede una spallata talmente forte al punto che, con la catena a impedire l’accesso già logorata da numerosi colpi, la rete all’improvviso si aprì di pochi centimetri e una ragazza riuscì a passare all’interno. Non feci in tempo né io nessun altro a parlarci, la caricarono su una camionetta e spero per lei che se la sia cavata senza altre conseguenze; non ho mai conosciuto la sua sorte. Ma ormai il varco era aperto e la fila di poliziotti davanti a me dovette arretrare perché avevano capito che la posizione non era più difendibile. Mentre loro arretravano un signore, spuntato dal nulla, in canottiera, esile, capelli bianchi lunghi e barba, entrò nella zona rossa come si entra in un locale, tranquillo e determinato. Anche soddisfatto, come potete vedere dal video che pubblico qui sotto, in cui sono quello di spalle.

Il vecchio signore a spasso nella sua Genova

Lo aspettavo come si aspetta un liberatore. Gli sono andato incontro per primo mentre un altro manifestante riusciva a entrare. Quello che non si vede nel video sono i colleghi che arrivano di corsa subito dopo e insieme formiamo un cordone per proteggere l’uomo dalla polizia. Mica sono tutti bastardi i giornalisti, quelli che erano lì urlarono alla polizia che era disarmato ed eravamo in diretta radiofonica, mentre i celerini ci circondavano con i manganelli alzati. Con così tanti giornalisti intorno la polizia fu costretta a comportarsi civilmente. Mi colpì che quel signore come primo motivo del suo gesto non si scagliò contro i potenti della terra riuniti a Palazzo Ducale, ma disse una cosa del tipo “Sono un cittadino genovese e nessuno può impedirmi di circolare liberamente nella mia città”.

Mentre ero in piazza Dante cominciarono ad arrivare le telefonate dei compagni che mi avvertivano di quello che stava succedendo nelle altre zone della città. Un bollettino di guerra, ma questo è già noto. Fino alla notizia dell’omicidio del ragazzo Carlo Giuliani. Cercai di raggiungere piazza Alimonda ma era materialmente impossibile, in ogni via dovevi sperare di non essere inseguito da poliziotti e carabinieri e tutta quella roba in divisa, era troppo rischioso. Per fortuna un altro reporter era già lì vicino e si collegò in diretta con la radio. Incontrai vecchi amici mentre tentavo di andare là. Riuscivamo solo a piangere e bestemmiare. Cominciammo a chiederci anche chi doveva curare l’autodifesa dei compagni, di sicuro non aveva funzionato qualcosa anche lì, ma in ogni caso quando ti sparano addosso c’è poco da fare, a meno che non vuoi rispondere al fuoco e scatenare una strage. E a proposito di questo cominciammo a porci il problema dei Black Bloc. Lo dico subito, penso che siano merde, fascisti, un esercito di riserva della reazione e nessuno me lo toglie dalla testa, ma resta il fatto che le violenze sui manifestanti e l’omicidio di Carlo Giuliani sono opera delle forze dell’ordine italiane. La sera in sala stampa, i giornalisti accreditati dormivano in una barca ancorata al porto, ci furono molte liti. Chi era stato presente agli scontri e raccontava di come si erano comportate le divise trovava a dir poco scetticismo in quelli che avevano seguito la giornata dalla scrivania con l’aria condizionata del centro stampa. Essere servo del regime comporta pur sempre qualche benefit.

Le immagini di Carlo in terra

Con il collega con cui dividevo la stanza, anche lui un compagno, passammo la notte a cercare un filo, un senso a quel che era successo senza trovarlo. Le immagini di Carlo in terra ci ossessionavano e personalmente mi ossessionano ancora, per il senso di impotenza, per non aver fatto niente o potuto far niente se non denunciare il comportamento cileno degli agenti. La tensione era fortissima e quando uscimmo all’indomani, per andare al corteo che avrebbe concluso il contro G8, ci aspettavamo da un momento all’altro di essere picchiati, prelevati, che un camioncino potesse sbucare dal nulla e portarci via, ma non avevamo paura, eravamo troppo incazzati, era quel senso d’impotenza che continuava ad aleggiare su di noi a renderci nevrotici e paranoici. Ci fu qualche ritardo nella partenza del corteo pomeridiano, quello della mattina già era stato funestato da cariche della polizia con lacrimogeni e attacchi dei Black Bloc o comunque di gente in divisa nera anche contro i manifestanti. Devo dire con onestà che essendo contraddittorio come tutti gli esseri umani, nonostante io resti convinto che la strada della nonviolenza sia quella giusta da cui non tornare indietro, sarei stato felice di restituire per intero la violenza e l’imbecillità politica che questi sedicenti interpreti del nichilismo hanno praticato contro i compagni e non solo a loro. Mi scuso con chi legge per queste affermazioni che possono sembrare violente e ripeto che ho scelto un’altra strada e molto tempo prima di Genova, ma si deve storicizzare questo discorso non a una generica analisi di cosa è giusto o no nella vita ma proprio a quei giorni e al clima.

Pomeriggio tesissimo. Alla concentrazione del corteo c’era un silenzio irreale. A quel punto con alcuni amici ci venne un dubbio e anziché seguire il corteo lo precedemmo di qualche centinaio di metri. In un lungo viale senza alberi, non ricordo il nome ma era davvero lunghissimo, ci accorgemmo che appostati sopra le tettoie delle fermate degli autobus si erano collocati gli stronzi in nero. Tornai indietro e parlai della cosa con l’onorevole Giovanni Russo Spena di Rifondazione Comunista, per avvisare i compagni di stare attenti. Cosa accadde non lo so, c’era comunque già tra i compagni di quello spezzone di più lunga militanza un dibattito dai toni accesi del quale posso immaginare i contenuti anche se non ho partecipato alla discussione. Sta di fatto che almeno dai lati della strada non arrivarono attacchi. La lite verteva su come era stata gestita l’autodifesa in quei giorni e quel giorno stesso. Il tema è delicato proprio perché chi era stato in piazza negli anni ’70 – pur cosciente che sarebbe stato assurdo e dannoso riproporre certi schemi – non poteva tollerare che così tante persone (e alla luce di quello che era successo) sfilassero senza un cordone di protezione. A risolvere la questione, arrivati a un incrocio piuttosto largo ci pensarono i Black Bloc che attaccarono il corteo scatenando la reazione delle divise. Entrambi, poliziotti e “Black”, ottennero lo scopo desiderato: spezzare in due la fiumana umana che manifestava pacificamente. I neri – per me in tutti i sensi – attaccavano a elastico: da un gruppo di cinque o sei se ne staccava uno che avanzava lanciando qualcosa che provocava l’intervento della polizia sul corteo. Poi tornavano indietro e la storiella ricominciava. Fu determinante la volontà ferrea di Vittorio Agnoletto e tutti gli altri del social forum di ricomporre in unica fila il corteo e si riuscì finalmente ad arrivare dove era previsto il comizio finale. Dei discorsi non ricordo nulla, ma questo era ancora il problema minore. Durante tutto il percorso alcune merde in nero fecero la spola tra i loro gruppi e le macchine della polizia. Ne fu testimone con me la senatrice, allora dei Verdi, Loredana De Petris, con cui non avremmo mai immaginato quanto questo particolare sarebbe diventato rilevante poche ore dopo.

La rabbia che torna a salire

Era finita. Pensavamo. Eravamo a cena finalmente, dopo giorni in cui non avevamo mangiato quasi nulla per la tensione, quando arrivò la notizia della mattanza alla scuola Diaz. Di corsa raggiungemmo la scuola, che era proprio davanti al media center di movimento, dove operava tra gli altri Radio Gap. Quella è un’altra scena a cui per molti mesi successivi non è passato un giorno in cui il mio pensiero non sia andato. La cosa che più mi colpì quando finalmente i macellai in divisa ci fecero entrare fu l’odore dolciastro del sangue dappertutto. Anche i giornalisti più “borghesi” erano allucinati, stravolti, increduli. Non solo c’era il sangue liquido. In certi punti al piano terra il sangue formava uno strato gelatinoso di almeno un centimetro di spessore. Abiti strappati, fogli divelti da libri e quaderni, su un muro l’impronta fatta col sangue di una mano che aveva cercato riparo. Fu a quel punto che uscendo riconobbi tra i poliziotti alcuni dei Black Bloc del pomeriggio. Andai subito a cercare Loredana De Petris. Insieme ne riconoscemmo almeno tre. Erano vestiti come nel pomeriggio ma con il casco e il manganello della polizia. In particolare puntammo una poliziotta a cui Loredana chiese di qualificarsi. Questa ci guardava con disprezzo e non disse una parola. Arrivarono altri poliziotti e ci allontanarono nonostante si trattasse di una parlamentare.

Non so se “zecca” sia romanesco o universale, è il termine con cui con disprezzo ci chiamano, chiamavano, i fascisti. Ero, sono e sarò sempre una zecca e non ho mai smesso di pensare che ribellarsi è giusto

Tornare a Roma non fu semplice. Per fortuna avevo qualche soldo e con un taxi arrivai a un paese più a sud di Genova dove prendere il treno. Alla stazione nonostante fossi praticamente da solo continuavo a sentire il rumore dei passi da marcia degli squadroni di agenti e il rumore dei manganelli che battevano sugli scudi. Per un attimo ho creduto d’impazzire. Arrivò il treno e nello scompartimento finalmente riuscii a sentire il silenzio. Fino alla stazione successiva dove salì un gruppo di Cobas. Credo che passò almeno un’ora prima che si ricominciasse a parlare. Poi come sempre la vita prevale su tutto e trovammo anche la forza di ridere delle condizioni in cui eravamo, ci conoscevamo quasi tutti e non mancò qualche fiasco di vino e qualche panino a farci compagnia fino a Roma.

Mentre scrivevo queste righe la rabbia è tornata a salire. L’idea di vivere in una società in libertà vigilata è quanto mai attuale… oggi più di ieri. Ero, sono e sarò sempre una zecca e non ho mai smesso di pensare che ribellarsi è giusto.

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