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Allonsanfàn
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(S)visto per voi. The Chair e il mondo delle Lettere al tramonto

Benvenuti, sugli squilli del Gloria in excelsis Deo di Vivaldi, nell’Olimpo midcult del Dipartimento di Lettere dell’Università di Pembroke nel North Carolina, luogo dimenticato dagli dei e dalle muse non fosse che trovandosi al centro dell’Impero pure chi sta in provincia gode di status superiore e detta le norme al globo delle menti impigliate nelle nuove reti dove tutti sono peer ma qualcuno è sempre più peer degli altri, pure se l’autorità risiede più che nella brillantezza degli ingegni nella solidità delle vecchie mura e nei polverosi uffici dove, simbolicamente?, anche la chair del Chair si sfalda alla prima seduta.

Promossa a capo del Dipartimento, la Oh Sandra che nello stupore generale si cerca di far passare come sexy dai tempi delle corsie di Grey’s Anatomy o delle vigne di Sideways, ora cinquantenne anche se lei nell’unica battuta buona della serie mischiando i livelli si abbona i cinque delle lauree vecchio ordinamento, in attesa di riconteggiarli quando si tratterà di godere dell’imminente prepensionamento cineseriale, si troverà a dover fare i conti, nelle intenzioni miserrime delle ideatrici poi rilanciate dai gazzettieri in vena di copiare, cambiando la punteggiatura e girando le frasi, rimanendo quindi sempre fermi sulla versione del comunicato stampa di Netflix, con la diffidenza di un mondo maschilista dove i professori sono dei vecchi bamba e le professoresse rimpiangono di avere perso oltre a quella intellettuale pure ogni capacità di seduzione non avendo più l’opportunità di occuparsi delle discriminazioni di genere con le chiappe fuori dagli shorts ma solo di lamentarsene.

A capotavola senza schwa

Lei è comunque Chair, con buona pace di certe mezze ingombranti figure che da noi hanno il ruolo di fare confusione su questioni di lana caprina così le pecore – come nella Fattoria degli animali – si fanno infinocchiare dai maiali (infinocchiare, a scanso di equivoci, senza nessun intento discriminatorio sia detto per chi coltiva la cultura del piagnisteo, e pecore ma anche maiali senza nessun riferimento a categorie del dibattito sanitario): a chi la chiama Lady Chair, risponde Woman Chair, poi sulla targhetta rimane Chair e morta lì, senza alambiccare complicandosi la vita sputazzando con schwa varie che a loro volta richiedono l’articolo maschile o femminile?, quando da sempre è il posto a capotavola che sancisce la differenza. In italiano, per i glottologi di Netflix, La direttrice e buonanotte.

La direttrice (The Chair) è una serie televisiva con Sandra Oh, ideata da Amanda Peet ed Annie Julia Wyman e prodotta da BLB e Nice work Ravelli per la piattaforma di streaming Netflix

Che quello delle Lettere sia un mondo al tramonto dove il romanzo come profetizzava il Roth meno criptico prima di passare a miglior vita è un genere di largo consumo destinato a scomparire è un dato di fatto, basta scorrere i titoli degli ultimi vent’anni, chiedere agli studenti in aula chi ha letto il testo in programma (nessuno, probabile; chi è ubriaco o fatto? uno, poco probabile), osservare chi tiene un libro in mano sotto i sessant’anni, leggere sui social i commenti di chi accusa mal di testa di fronte a un periodo che superi la complessità basica di una rock band: soggetto verbo e predicato, ma pure l’assoluta inadeguatezza di ogni twitteriana sintesi dove centoquaranta caratteri sono addirittura sprecati per certi vagiti pre e post adolescenziali figurarsi citare frasi da Moby Dick, senza contare la capacità di analisi critica, pure presupponente perché confermata dal raglio degli Amici defilippiani non nel senso di Peppino: gli esami in tivù non finiscono mai perché non finiscono non gli esami ma sigh! i candidati. E i custodi delle Lettere giocano ancora con i gessetti alla lavagna mentre scombinati come da copione, ma sempre con adeguata psicologica giustificazione, fanno i peterpan su monopattino e Graziella e sui sofà del dipartimento con effetti slapstick da Oggi le comiche, con seminari su “Sesso e romanzo” e tesi su “Morte e modernismo” che non sarebbero trasgressivi nemmeno all’Università dell’Irpinia e della Calabria dove schwa lo fanno di default mentre si citano a capocchia Camus e Beckett e surprise! Pavese: la sintesi degli studenti sui social sarà un deprecabile quanto decontestualizzato saluto nazista.

Aspettando David Duchovny

Giacca sportiva, filo di barba, cannetta di nascosto, studentessa adorante. La furba sceneggiatura, mentre così costruisce il personaggio, al contempo ne elenca i connotati autodenunciandosi e autoassolvendosi per aver rappresentato lo stereotipo del professore bianco insoddisfatto di mezza età.

Dopo l’allenniano alienante professore di Joaquin Phoenix che almeno si faceva la studentessa ranocchia Emma Stone, qui tocca all’abatino Jay Duplass che avevamo perso di vista dai tempi del figlio di babbo transgender di Transparent farsi crescere la barba per assumere i connotati del fascinoso professore e ricalcare le orme del Noah che intrallazzava un The Affair con la preside di colore. Hot sarebbe lui per la ragazzina che lo raccoglie schiantato in un cespuglio e se lo farebbe anche previo recapito di una torta mica di una pizza di canapa davanti a casa ma lui preferisce assediare al bowling la direttrice con petulante figlia adottiva a carico e vecchio babbo coreano monolingua a casa tra gli oh! di raccapriccio del pubblico maschile. Si attende l’arrivo di David Duchovny nei panni di se stesso e quindi di Hank Moody, con la segreta convinzione che provvederà lui in un cameo alla Californication a far strage della figlia del membro del Comitato amministrativo e dell’impiegata di seconda generazione dell’Ufficio Reclami con carriera negli aiuti ai rifugiati che invece di combattere a casa loro preferiscono farsi movimentare come merci nelle stive degli aerei cargo degli eserciti di occupazione, cliché per cliché, a spargere almeno un po’ di zolfo fatto col ghiaccio secco tra tanto indigesto zucchero filato.

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