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Che hai fatto in tutti questi anni. Il Leone d’America nel libro di Negri Scaglione

Prendo un po’ alla lontana la lettura dell’avvincente libro-inchiesta di Piero Negri Scaglione Che hai fatto in tutti questi anni (Einaudi), dedicato a C’era una volta in America di Sergio Leone. Parto infatti da un ricordo personale di quasi mezzo secolo fa. Ecco: da ragazzino, io non amavo Sergio Leone per futili motivi, perché aveva un’aria tutt’altro che eroica. Era un grassone barbuto con occhiali giganti, privo in toto dell’allure di quelli che intuitivamente reputavo i suoi alias: pistoleri, come lo svelto Clint Eastwood o il crudele Lee Van Cleef, due dei tanti cowboys che popolavano i miei film della domenica pomeriggio. Western spaghetti per lo più.

Fu però grazie ai western “di” e “alla” Leone che mi divenne evidente, per la prima volta e in qualche modo, cosa era davvero il cinema. Ai tempi capivo, sempre intuitivamente, senza saperlo mettere in parole, che i film di quel grassone erano “fiction”, che possedevano più degli altri un dono di irrealtà. Erano così visibilmente esagerati e artefatti che non concedevo loro il privilegio di prenderli sul serio, mentre invece mi inchinavo emozionato – quando passavano in bianco e nero in tv – al supposto realismo (anche sentimentale) dei classici hollywoodiani, fossero Ombre Rosse o Via col vento.

Breve: Leone era assai più avanti di me acerbo teenager, anzi stava proprio da un’altra parte. Io vedevo i suoi film – lo capisco ora – come fossero divertenti parodie o serie parodie, avendo in qualche modo chiaro che era conserva di pomodoro quella che scorreva nella Trilogia del dollaro, mentre prendevo per sangue vero quello, che so, di un qualsiasi sottoprodotto Usa sul massacro di Little Big Horn.

In questa luce, mi è più comprensibile perché “da grande”, a vent’anni e passa, mi piacque moltissimo (e ho poi rivisto tante volte in seguito) C’era una volta in America senza che mi venisse in mente che “avesse un significato”, diversamente da certi piccoli e gloriosi e un po’ pallosi film europei amati allora. L’ho preso da subito per “celluloide pura”, come non possedesse “dentro” idee o sentimenti su cui perdere del tempo: l’amicizia, la fedeltà, il tradimento… Erano cliché o panzane, finzioni funzionali a far girare a mille un mirabile spettacolo – oltretutto in quegli anni ci occupavamo assai di “significanti” oltre che di “significati”. Figuriamoci l’effetto di un kolossal che potrebbe rivelarsi tutto intero una favola nera o un grande sogno, per di più d’oppio.

C’era una volta in America quindi per me era, e lo è rimasto, un funambolico omaggio al culto cinematografico dei gangster fatto da un artigiano italiano, talentuoso e – ho sempre creduto – piuttosto cinico. Per motivi simili, non ho mai creduto che Ennio Morricone fosse un musicista degno di uscire dalle sale incantate del cinema, ma forse neppure dalle scassate sale parrocchiali dove per la prima volta ho sentito le sue musiche e il suo flauto di Pan. Lui e Leone per me erano e sono “solo”… cinema. E scusate se faccio loro questo grandissimo complimento.

Punto e a capo. A tutto questo, al cinema tout court e al suo mito, e al mito che ne aveva Sergio Leone, ho ripensato leggendo il libro di Negri Scaglione Che hai fatto in tutti questi anni, titolo preso dalla più bella e proustiana delle battute di C’era una volta in America – il reo confesso del plagio è lo sceneggiatore viscontiano Enrico Medioli.

Il libro è più di una ricostruzione del lungo (18 anni), travagliato e avventuroso making of di un film, ma una ricerca a più voci, moltissime voci, che ha insieme l’ampiezza dell’affresco – il mondo del cinema negli anni Sessanta e Settanta, ma anche prima e anche dopo, in svelti flashback e flashforward – e il cesello della miniatura nell’annotare le peripezie infinite per riuscire a battere il primo e l’ultimo ciak, ma anche quelli di mezzo. Il capolavoro di Leone occupa da quando uscì, nel 1984, l’immaginazione del giornalista piemontese – che lo reputa “il” film dei primi Ottanta e della sua generazione (e spiega bene perché) – fino a farne oggetto di un’indagine durata 15 anni: risale al lontano 2006 l’intervista con il dialoghista americano di C’era una volta…, il giallista Stuart Kaminsky, relativamente poco noto ma molto affidabile per estrazione ebraica e newyorchese.

Ecco: gli scrittori. Leggendo d’un fiato Che hai fatto in tutti questi anni, ho imparato e ho ripassato una sfilza di nomi di persone che, come protagonisti e comprimari, parteciparono o vennero esclusi dall’impresa: per esempio, tra gli scriventi, compaiono due grandissimi. Un enigmatico Leonardo Sciascia, allora popolare anche per le trasposizioni cinematografiche di A ciascuno il suo e della Civetta e apparentemente desideroso di provarsi sul campo, e un Norman Mailer pasticcione, giunto al sesto matrimonio e in sonno come romanziere, al cui fallimentare copione abbozzato in una trasferta romana è dedicato un capitolo molto divertente.

Invece, la trama del film appresa dalla voce stessa di Leone o di Donsergioleone, come si autodefinisce (è riprodotta da pag. 94 a pag. 114 e arriva dagli archivi di Austin via De Niro), varrebbe, per la sua potenza visionaria, più che papale stregonesca, un discorso e un biglietto a parte.

Di una cosa su tutte ringrazio Negri Scaglione: in mezzo a tante storie essenziali e collaterali, nel libro è riuscito a inquadrare e a raccontarci, con un accorto montaggio, il più interessante dei soggetti, cioè il grassone con gli occhiali giganti, quello casalingo in accappatoio e slippini, e quello pubblico, col sigaro e la Rolls (o era la Bentley?), Sergio Leone insomma, di cui ci ha fatto capire la genialità e, partendo con un’inquadratura da lontano, a poco a poco anche l’anima, nascosta nella passione identitaria e totale per il cinema. Ma poi: come potevo pensare che fosse cinico uno che muore di crepacuore per un film?

IL LIBRO Piero Negri Scaglione, Che hai fatto in tutti questi anni. Sergio Leone e l’avventura di C’era una volta in America  (Einaudi)

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