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Allonsanfàn
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In una busta arancione il vecchio mondo di Mario Soldati

Se nel lontano 1966in pieno Secolo Breve, ad appena due anni dal ’68 e a tre in più dal ’63 – avessi preso in mano La busta arancione di Mario Soldati, uscito allora e riedito oggi nei Tascabili Bompiani, sarei stato infastidito dalla tipica foga sentimentale dello scrittore torinese. Dal fatto che, per quanto sulfureo o anticonformista si creda il gesticolante e baffuto affabulatore piemontese (me lo ricordo così dentro il televisore), La busta arancione altro non è, appunto, che un “romanzo sentimentale”.

Con vezzi vintage e abbrivi proustiani, Soldati comincia il racconto sul suo tema principe, quello dell’amicizia virile, esaltante o deprimente che sia, e tratta l’approccio alla donna – in quanto appartenente a una categoria ignota a un maschio adolescente e poi adulto – con l’occhio fisso alla difficoltà dell’amore e di rimbalzo all’agognata pratica sessuale, monetizzabile sempre e tanto più se affinabile al bordello.

1966: eravamo già in un’altra Italia, benché la storia de La busta arancione si fermi al 1959, mentre Soldati presenta, come sovente, un personaggio e un mondo vecchio, da treno fantasma al luna park, a un lettore di una generazione che si crede e vuole “rivoluzionaria”; e questo pur essendo – a uno sguardo meno superficiale – uno scrittore assai scaltro in rapporto ai suoi tempi e ai suoi colleghi.

Qui per esempio, nel tema dell’amicizia tra Carluccio e il riccone Alessandro Rorà introduce con sottigliezza l’elemento omosessuale, e fa del suo Carluccio – nevrotico rentier e bon vivant torinese con istruzione da collegio gesuita – un caso psicoanalitico, delineandone il rapporto con una madre possessiva e castrante, che lo rende cacciatore compulsivo di femmine (perdute o di rango basso) prima nella Roma bellica e post bellica e poi nella garçonniere milanese a un passo dalla Scala o in villa sul Lago Maggiore. Mi sarei fatto bastare questa doppia prova di spigliatezza, sessuale e clinica, se avessi letto La busta arancione nel 1966?

Ma no. L’amicizia tradita da una conversione religiosa, la caccia grossa alla sottana – scatenata con nessuna grazia, siamo anzi gettati a precipizio, in una casa chiusa di cliché -, il ritratto della borghesia piemontese intorpidita nei suoi riti dolciari, escludono la comparsa (persino la comparsa) nel romanzo del reale ovvero di chiunque, in società, non possa campare di rendita: fanno eccezione naturalmente le tabaccaie giunoniche, le timide o navigate meretrici, e qualche servo rozzo ma fedele, come il povero Giopa…

Eppure. La visione ideologica del personaggio principale (e del narratore?) è sofisticata, inconfutabilmente materialistica e pessimista. Niente affatto accomodante. In amore tutto passa per il denaro, il denaro è cioè la cartina al tornasole dell’intensità di un rapporto, calcolabile sulla capacità di esborso dell’amante maschio. Il vero amore sembra sempre e forse suona sempre come moneta falsa – è addirittura una faccenda da servi come il Giopa che non discernono del padrone, quasi per impossibilità fisiologica, puri capricci e veri bisogni.

Proprio il denaro che passa di mano sull’onda di sentimenti presunti o fittizi, tra pretesa concretezza e ben recitata illusione, è il protagonista di tante svolte rocambolesche e crudeli del racconto, quando Soldati, prima di appiccicare un happy end da cartolina al finale de La busta arancione, esagera l’esagerabile in una vertigine di storia di amore/non amore perduto.

Noto che il personaggio (o il narratore?) attribuisce un afflato molto concreto e astuto anche alla religione cattolica: la comunione sarebbe una pratica ambigua in quanto offre un’illusione di possesso materiale nell’ingestione dell’ostia. È insomma a tratti così smagata la narrazione del torinese che, nel suo bizzarro misto di protomarxismo e tardofreudismo al soldo poi entrambi di un ben assodato e cinico conservatorismo, rende La busta arancione se non contemporanea almeno meno inattuale (meno da bordello) in questo caldo 2022.

Torniamo per un attimo al 1966: attorno alla categoria cui Mario Soldati appartiene di diritto e di fatto, quella della Letteratura Istituzionale – “opere di prestigio e di leggibilità seducente collegate con le stagioni precedenti”, così Bruno Pischedda su imbeccata di Vittorio Spinazzola – c’è grande vento di cambiamento. Soldati se ne infischia e tira dritto, sedotto dalla sua stessa abilità – che lo porta a moltiplicare le giravolte della trama – e forse divertito dal suo stesso sguardo che alterna, nell’avventura di Carluccio, partecipazione convinta e botte di vitale menefreghismo.

A pag. 94, le parole romantiche della prostituta Meris al rentier Carluccio – imboscato al Ministero in tempo di guerra e costretto da Meris a una sorta di vivificante punizione erotica quasi sadomaso, un rito che si riverbera più tardi beffardamente in un bacio di crocefisso sul letto della madre morente – paiono a Soldati avere un’eco dei rotocalchi Novella ed Eva, dei testi di Liala e Flavia Steno… Sembra quasi che il narratore si sfotta essendo quelli gli anni degli anatemi anti-istituzionali del gruppo ’63, ma è un lapsus, e subito Soldati si affida alla sua facilità di scrittura e di invenzione, anche perché non ha intenzione di far altro, visto che non può fare di meglio. Specialmente quando sproloquia di donne: e qui, come per tanti autori tradizionali del periodo, altro che #metoo, manca persino un briciolo di empatia con i femministi anni Sessanta.

Lo scrittore nascosto

Provo a ridire in altre parole quanto sopra. Soldati corre spesso veloce buttandosi nel romanzesco, nella situazione limite, e racconta la malattia dei suoi personaggi in acuzie, perché non vuole svelare sé stesso, lo scrittore ritraibile in controluce sullo sfondo, e perciò invita sempre con molta fretta e disinvoltura il lettore alle sue grandi manovre di amore&morte (senza Dio) oppure si appoggia, anche per nascondersi meglio, a un secondo narratore – per esempio: il Maresciallo o il Commendatore, cui intitola due libri, gli permettono di guadagnare in (falsa) oggettività nelle sue autobiografie continuamente disattese.

Fin dagli esordi, il narcisismo, o più semplicemente l’individualismo – con rischio di tracimazione non fosse subito drenato e asciugato in pagina – viene avvertito quasi con fastidio dallo scrittore: ecco, è questa la colpa che Soldati, sospettoso tanto del post crepuscolarismo quanto del tardo romanticismo, si imputa – con più dolore o civetteria? – e con cui solo più avanti nel tempo verrà a suo modo a patti.

Ricordiamo un racconto chiave, L’amico gesuita, datato agli anni Trenta, come gli altri della racconta omonima – lo recupero in un Oscar del 1979, aperto dal reportage narrativo Un viaggio a Lourdes (1935). Ne L’amico gesuita viene certificata una fatidica doppia mancanza di fede (in Dio e nell’arte) di Soldati ragazzino e, di conseguenza, la condanna perenne dello scrittore al pessimismo e a gesticolare molto (nel televisore e dietro i suoi personaggi) per non svelare a quale divertente e vitale inferno si è fin da piccolo condannato.

Se desiderate leggere altro di Soldati, e in specie sull’amicizia virile e sul complicato rapporto uomo/donna, consiglio il breve Il vero Silvestri (1957), il lungo Le due città (1964) – Torino e Roma, naturalmente, due stagioni diverse della vita, ed è questo il romanzo più pacificamente autobiografico – e il capolavoro del Soldati più nero, l’ambigua e grottesca partitura de L’attore (1970).

Nella foto, Mario Soldati fotografato nel 1967 per il Radiocorriere

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