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Allonsanfàn
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Sotto il lampadario di Clarice Lispector

Scriveva Antonio Tabucchi di Clarice Lispector (1925-1977), a proposito di un librino di racconti smilzo e densissimo – Legami familiari, UE Feltrinelli, chi non lo aveva in biblioteca negli anni Ottanta? -, che Lispector fissa lo sguardo impietoso su “un universo sull’orlo del collasso”, incongruente e volgare; e che, misteriosa ed esoterica, tenta di “lacerare la pellicola opaca dei gesti degli uomini per carpirne il segreto più intimo”, il segreto che potrebbe dare senso all’insensatezza del vivere.

In una nota del libriccino, la stessa Lispector – nata in Ucraina come Chaya Pinkhasovna da famiglia ebraica e rivelatasi, dopo essere emigrata prima a Recife e poi a Rio de Janeiro, uno dei massimi scrittori di lingua portoghese – parla della sua “concentrazione nello scrivere” che, se non è trance, elimina la coscienza e il ricordo di tutto quello che allo scrivere sta intorno. “Quando non scrivo, sono morta”, disse in una famosa intervista televisiva, che fu trasmessa postuma.

Segnatevi queste poche informazioni, nel caso foste travolti dal fiume di parole del suo secondo romanzo, Il lampadario (Adelphi 2022), che ci trasloca nella tenuta di Granja Quieta – in Brasile, credo, ma potrebbe essere ovunque – dove la famiglia della bambina Virgínia va in malora in giorni troppo uguali, come credo tutte le famiglie del mondo.

A Granja Quieta, in preziosa e selvatica variante, dimora anche sua maestà lo stream of cousciousness, il flusso narrativo che oggi può inquietare noi lettori medi di prodotti medi, di best seller Usa e gialletti italiani, di testi di memoria e d’invenzione scritti con un imprinting giornalistico per essere più consumabili dal consumatore, il quale, ancorché esigente, legge su tablet e ha spesso fretta.

Il lampadario, scritto nel 1946 a Napoli, dove Lispector si trovava al seguito del marito diplomatico (l’ex compagno di università Maury Gurgel Valente), poi abbandonato nel 1959, quando la scrittrice si stabilì definitivamente in Brasile, partecipa al nobile deragliamento e alla reinvenzione novecentesca del romanzo, che fu l’impegno letterario, per chi scrive e pure per chi legge, del Secolo Breve.

A Granja Quieta, ci sono un lampadario ricordo (forse) di antichi fasti e un fiume vero accanto a quello delle parole. Nella prima delle tre parti più una in cui possiamo per arbitrio tagliare il testo, si addensa e scompone, nella vertiginosa attenzione che Lispector pone agli accadimenti di un’infanzia, una presa di coscienza liminale, fibrillante tra luce e buio, della vita.

Nel fiume d’acqua si può impigliare a mo’ di presagio il cappello di un uomo annegato – ma forse è solo un cappello e basta – intanto che si staglia accanto a Virgínia la figura di Daniel, il fratello che le impone le regole della Società delle Ombre. Solitudine e verità assoluta, costino quel che costino, anche il prezzo di una delazione, sono le qualità da perseguire per farne parte, lì dove “…l’istante seguente avrebbe portato un grido e qualcosa si sarebbe perplessamente distrutto, o la notte lieve avrebbe di colpo ammansito quell’esistenza eccessiva, selvaggia e solitaria”.

Il lampadario, invece, paragonato a un grosso ragno, domina la sala dove, come burattini, simili (forse) ai pupazzi modellati da Virgínia, si muovono la madre, il padre, la sorella Esmeralda, la nonna. Virgínia guardava avvampare “il grande ragno” e restava «…immobile, inquieta, sembrava presagire una vita tremenda. Quell’esistenza di ghiaccio». Quando da adulta Virgínia tornerà alla casa e la abbandonerà di nuovo, significativamente si dimenticherà di guardare per un ultima volta il lampadario (se ancora c’era!).

Ho impilato queste righe per dare conto di una scrittura che favorisce le percezioni – di regola della protagonista, ma a volte e quasi per sbaglio, come trovando uno scoglio, il fiume narrativo si scosta tradendo la sua sorgente – e una comprensione quasi trasognata della realtà. Virgínia dal leggero strabismo è la ragazza che sviene spesso ma quando è in solitudine, non appena (forse) la discrepanza tra il mondo dell’interno e quello dell’esterno (handkianamente) è troppo divaricata per la sua sensibilità. È una delle prime donne di Lispector “on the verge of exaltation, greatness, dissolution, spiritual ecstasy”, come scrive la traduttrice americana Katrina Dodson.

Nella seconda stazione de Il lampadario, la ragazza è in città per gli studi. In società. Subito abbandonata da Daniel, idolo misterioso andato sposo e al lavoro nella cartoleria del padre, Virgínia va alla solitaria scoperta di un milieu borghese che comprende cene intellettuali (interminabili) e il contatto altalenante con Vicente, amante volubile ed egoista, già sposato, e pronto a ricattarla con la sua prepotenza da uomo fatuo.

Ma mai si creda di riposare nelle vicende di un racconto tradizionale. È in questa seconda tranche, dai tempi della narrazione volutamente squilibrati rispetto all’importanza di ciò che vi (o non vi) accade, che Virgínia avverte il suo destino già versato e compiuto nell’illusione. Il tentativo di verbalizzare a tutti i costi porta Lispector a imboccare alcune tra le frasi e i paragrafi più oscuri e tormentati della sua prosa. È questo che (forse) le ha procurato più tardi l’accusa/complimento di praticare non letteratura ma “stregoneria” (Otto Lara Resende). Virgínia “…sembra cercare il legame che avrebbe dovuto esserci tra quella specie di elfo che era stata fino alla giovinezza e la donna dal corpo sensato, solido e cauto che era adesso”, lamentando l’occasione persa nell’infanzia e nell’adolescenza: forse quella di vivere diversamente che in una regolarità igienica, pulita e nobile “da sanatorio”? “Bambini e bambine” si dice altrove “avrebbero dovuto cambiare il nome una volta cresciuti”.

È tempo di tornare a Granja, per il funerale della nonna, nella terza parte che precede l’epilogo. La famiglia rinnova i suoi riti altri, quasi brutali, svelati per esempio attorno a una tavola dove ci si ingozza senza ritegno, al contrario che in città. “Nelle vite limpide e chiare dove nessun angelo umido si sarebbe mai più intrufolato, il miracolo si era seccato ai fili d’erba che si spezzano al vento – dove, dov’era ciò che aveva vissuto? Granja Quieta aveva perso quel che aveva di monastico…”. Nell’esistenza di Virgínia e dei parenti, come la sorella Esmeralda, si succedono le rese dei conti. E Daniel, il fratello che finalmente ricompare, è l’uomo che ha sbagliato “con violenza”, e per questo simile a un eroe. Che il tema più doloroso enunciato da Lispector sia quello di “sopportare la propria vita”?

Finito il romanzo, seguendo Tabucchi, si può (forse) riporlo, insieme ai più tardi racconti epifanici della scrittrice, nello scaffale di Joyce, Kafka e Woolf. Di certo, l’arte di Lispector è condensata e ha l’insight del materiale poetico – “poetico” è l’aggettivo da contrapporre al “giornalistico” usato sopra – e se il suo stream fosse in streaming davvero assomiglierebbe (è l’ultimo dei nostri “forse” che lasciano la lettura aperta) a lunghi e illusori piani sequenza, crivellati di appunti di visioni.

La traduzione italiana di Il lampadario è di Virginia Caporali e Roberto Francavilla

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