UN BLOG
IN FORMA DI MAGAZINE
E VICEVERSA

Allonsanfàn
{{post_author}}

Il libro dei libri di Antonio Franchini

Leggere possedere vendere bruciare (Marsilio) è un libro che parla di libri – di infiniti libri, forse, tanti quanti ne vorrebbero scrivere gli illusi abitanti del globo, tutti aspiranti scrittori, capaci di creare un’immensa catasta di manoscritti i quali possono anche andare bruciati in una pira – seppure con fatica, Ray Bradbury la faceva troppo facile con i suoi Farenheit – oppure, dopo aver partecipato a una sorta di crudelissima lotteria, diventare libri per davvero e fare la felicità del neoscrittore sopravvissuto alla tremenda selezione (per bravura, per fortuna, perché chi sceglieva faceva pesca a strascico ed è stato fortunato lui, chissà).

Importa qualcosa se questi libri stampati sono già alla nascita libri da bollino giallo, che è il marchio infausto apposto sulle rese? Importa se rimangono invenduti come poi accade ed è accaduto a tutti i libri in ogni evo della storia umana? Ma quando mai infatti – parola di uno scafato venditore napoletano, evocato da Antonio Franchini forse ricorrendo a una costola di sé, quella che esprime il suo vitale e pensoso fatalismo – ma quando mai, in che epoca, sono stati poi venduti questi libri (quelli de La Medusa compresi)?

Leggere possedere vendere bruciare di Antonio Franchini (Napoli, 1958) è un libro bello e singolare: lo firma uno scrittore che i suoi libri li scrive sì, ma quasi fosse un secondo lavoro (palese che non è vero), perché in realtà di primo lavoro i libri Franchini li fa, li ha sempre fatti, avendo lavorato e lavorando in ruoli diversi nelle case editrici, grandi e meno grandi, come curatore editoriale, editor, responsabile della narrativa. Anzi – e questa è stata la sua prima vocazione, mai tradita e consegnata a un denso saggio apparso nel 1998 su Nuovi Argomenti e qui ripreso – leggendo e occupandosi di manoscritti. Il che significa: vedere la potenziale letteratura da vicino (da troppo vicino?), toglierle sacralità o per paradosso aggiungercene, lasciare costantemente che sull’editor cali un sospetto di cinismo mercantile, oppure, quando questi abbandona il protettivo ruolo di “funzionario” che attende a pratiche svilenti poiché commerciali, trovarlo preda di quell’ingenua foga che poi nella realtà si rivela spesso, in un modo o nell’altro, un azzardo o uno spreco di energia – a proposito: Franchini sa molto bene, credo, di non essere mai stato uno “spatriato”, ma uno “sprecato” in qualche modo forse sì.

Leggere possedere vendere bruciare è composto e scomposto in cinque parti, scritte o dedicate a momenti diversi della vita dell’autore, ognuna con un taglio ibrido, tra saggio, memoir e racconto, in equilibrio tra testimonianza e invenzione; e queste cinque parti hanno tutte a che fare con i verbi all’infinito del titolo e con la materialità, la fisicità dell’oggetto libro.

È il libro ereditato. Nel racconto d’esordio si tratta dei volumi di un padre scomparso e dei suoi struggenti metodi di accumulo cartaceo negli ultimi anni di vita, comprendenti pure dispense da edicola – sono tutti testi che non si sa se conservare o buttare, quando al figlio tocca aprire gli scatoloni con un pericoloso cutter (la nostalgia non è più quella di un tempo, se non ci si ferisce neanche per lapsus o per sbaglio?).

È il libro da scoprire, da fare, che occupa il vecchio testo di Nuovi Argomenti, e l’aggiornamento di questo nella terza tranche, nata all’ombra delle età dell’oro (leggendarie, saranno mai esistite?) dell’editoria del passato. E qui la storia di Franchini svela irresistibili giochi delle parti e si apre, pur nella serietà, a una serie di sketches e pezzi di teatro, coinvolgenti noti e meno noti – Franchini ha il dono di far ridere ed è capace di narrare aneddoti senza essere né verboso né pettegolo. Ciò rimanda a un’intelligenza dello stato delle cose che, servita da una scrittura di incredibile limpidezza anche quando entra nel torbido, svela come spesso il mondo, non solo letterario, viva sotto la figura retorica dell’ossimoro.

Ma proseguiamo. Ora c’è il libro da commerciare, protagonista di una parodistica fiera di Vienna, come al solito sottoposto alle torture e storture del marketing e all’accortezza di pochissimi uomini saggi – per esempio, il venditore Procolo citato sopra, che si guadagna un ampio show quasi espressionista, oppure un editor francese che, da qualche parte nella folla, dice soavemente che un titolo di quelli che “non schiodano una copia” è andato  “gentement”.

Infine, arrivato all’infinito “bruciare” lo scrittore-editor fa il bilancio, provvisorio e cauto come tutti i bilanci di Franchini, lottatore deciso a buttare la palla avanti anche quando ha poco campo: comincia evocando i libri che incontriamo da bambini, da piccoli lettori, quelle frasi in esergo (magari al testo di un cretino) che non abbiamo più dimenticato – quest’ultimo racconto è una chiusura in chiasmo elegante seppure a tempi invertiti con il primo.

Ed ecco: è il tempo l’altro grande protagonista del libro di Franchini, il tempo individuale – scandito dall’esperienza e dagli aggiustamenti al suo impegno di lettore di manoscritti – e il tempo concesso, dal mercato, a una storia.

Franchini spiega bene come è cambiata rispetto al secolo scorso la durata vitale di un libro: date ed edizioni de Il deserto dei Tartari partono dall’anteguerra per Rizzoli eppure, di copia in copia, Dino Buzzati appare assolutamente contemporaneo a chi ne compra l’Oscar, che esce solo negli anni Sessanta. Oggi invece, i libri, pure quelli considerati importanti – Franchini fa l’esempio del premiatissimo Canale Mussolini di Antonio Pennacchi – ballano una stagione sola, come avessero già appiccicato sopra il famigerato bollino giallo.

Buona lettura, allora. Il libro di Franchini vi piacerà perché in tutti noi c’è, più che uno scrittore – vedi l’ultima riga – un bambino solitario con gli occhiali.

  • Di Antonio Franchini narratore postemingueiano abbiamo già parlato qui
I social: