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Orhan Pamuk. Il grande romanzo della peste

Se oggi, in questo post, volessimo volare rasoterra, guardare l’immaginaria isola di Mingher dal fango di recenti polemiche pandemiche, del nuovo romanzo di Orhan Pamuk metteremmo in evidenza l’ottusità in cui può sprofondare l’umanità sotto la minaccia di una pestilenza (qui: peste vera).

Notiamo invece che Pamuk, primo turco a ricevere il premio Nobel (2006) e tra i più solidi romanzieri del secolo (scorso e presente), ha deciso di scrivere le 700 pagine de Le notti della peste (Einaudi) prima della comparsa del Covid 19, occupandosi di un’epidemia nell’Impero ottomano di inizio Novecento; se mai volessimo intonarci all’attualità spicciola, indirizzeremmo allora il libro all’ultimo e controverso sultano di Istanbul, il dittatore (si dice ancora così?) Recep Tayyip Erdoğan.

Comunque, partiamo dal principio. La prima parte de Le notti della peste ha per protagonista il dottor Nuri, tra i pionieri dell’epidemiologia nell’Impero, un cosmopolita positivista convinto che le misure di quarantena sono rese inefficaci da coloro che si rifiutano di prenderle sul serio.

Il dottor Nuri studia l’epidemia per trarre dal mortale impiccio l’isola di Mingher, governata dall’ambiguo Sami Pascià, sempre in pericolante rapporto col potere centrale. Lì è stato inviato – siamo nel 1901 – dall’imperatore Abdul Hamid in persona, che si segnala nella nostra storia per l’intelligenza paranoide e l’ossessione per i veleni. Forse Nuri batterà la peste e risolverà pure il mistero dell’assassinio del luminare Bonkowski Pascià che l’aveva preceduto. In fondo, un epidemiologo valuta con il puro ingegno dell’analisi e dell’istinto le pericolose modalità di un contagio, adoperando un atteggiamento induttivo simile a quello di Sherlock Holmes. Lo sa bene Abdul Hamid, appassionato di letteratura straniera e fiducioso nella competenza del dottore, cui ha concesso in moglie la principessa Pakize, figlia del fratello usurpato del trono e tenuta prigioniera di palazzo per oltre vent’anni.

Ostenta invece di non conoscere Holmes il governatore Sami Pascià, che opta per una rigorosa deduzione – cattura i presumibili untori o attentatori al potere e poi li massacra – botte sotto alla pianta dei piedi – fino a far loro confessare il misfatto.

Ma subito Le notti della peste di Pamuk si aprono, levitano nella loro ambizione. Ne scopriamo l’impianto solido e sofisticato, che risponde al bisogno di Pamuk di essere credibile e creduto, per mezzo di una seppur fittizia testimonianza diretta, e insieme libero di creare: formalmente, è la principessa Pakize cui si deve questa realistica cronaca della peste affidata a una serie di lettere destinate alla sorella e rilette per noi da uno storico il cui nome sarà svelato nel finale. Inoltre il tema del romanzo si amplia per contenuto fino a coinvolgere la decadenza stesso dell’Impero, le cui contraddizioni deflagrano nell’isola.

La conflittualità delle etnie, i dissapori tra le storiche famiglie musulmane e l’intraprendente comunità greca, le diverse religioni in campo e l’influenza culturale europea creano una situazione instabile, che la fiammata (la peste) trasforma in incendio. Nuri stesso, medico formatosi in Francia, è il simbolo di una modernità cavalcata a malincuore e quasi disperatamente – poiché porterà alla loro rovina – da Hamid e dai suoi funzionari.

Il romanzo della peste – Defoe e Manzoni più dell’asociale Camus – diventa il romanzo della nascita di una piccola e orgogliosa nazione. Creta è stata appena persa dall’Impero, e il vigoroso maggiore Kâmil, che noi conosciamo dapprima come guardia del corpo del dottor Nuri e come tenero innamorato della ragazza Zeynep, sembra l’uomo giusto, l’uomo del fato, per tirare le fila della rivolta di Mingher.

Pamuk al saggio preferisce il racconto storico in forma di romanzo, il che significa poter trattare in pieno agio e verosimiglianza pestilenza e indipendenza dell’isola alla luce della sua immaginazione e dei suoi “sentimenti”- nell’ultima parte del libro nota, con bella innocenza, le possibilità espressive offerte da un “romanzo sentimentale”. Lo scopo dichiarato de Le notti della peste tocca – e inevitabilmente – anche la politica. Così ha detto lo scrittore riguardo i suoi intenti: “In tempi di nostalgia neo-ottomana in Turchia, desideravo descrivere l’agonia di un impero e allo stesso tempo sviscerare la nascita di un laico nazionalismo repubblicano”. Pamuk non dimentica mai di esser lui stesso nato e cresciuto diviso tra Est e Ovest: ha narrato nell’autobiografico Istanbul (Einaudi) la sua infanzia in una famiglia borghese e laica della Turchia occidentalizzata di Atatürk e l’appartenenza a una categoria sociale che non temeva tanto Allah, quanto la rabbia di coloro che credevano in Allah, identificati da bambino negli umili servitori e nei poveri.

Leggiamo dunque dell’isola di Mingher in subbuglio, e di un violento rivolgimento dove il caso e l’individualità dei protagonisti trasformano l’azione, scomposta nei particolari, in un sanguinoso balletto di incomprensioni ed equivoci, che alzeranno anche la temperatura emotiva del testo. Pamuk, il quale nella prima parte del libro è – per interposta persona, anzi per doppia interposta persona, come si scopre – cauto e pensoso, raziocinante e toccato da una sorta di pudore nei brani che narrano l’amore di tre coppie di personaggi (Nuri e Pakize, Sami Pascià e l’amante, Kâmil e Zeynep), Pamuk, dicevamo, nei giorni del giudizio per Mingher, apre grandi ali (di corvo), conscio delle beffe riservateci dalla storia poiché “…spesso coloro che compiono i primi passi di grandi sconvolgimenti, rivoluzioni e distruzioni, agiscono temendo le conseguenze delle loro azioni e mossi dalla convinzione di fare l’esatto contrario” (dal cinquantatreesimo capitolo).

La più solida certezza resta la nostra possibilità di raccontare, come spiegava Pamuk ne La valigia di mio padre (Einaudi), commovente discorso/dichiarazione di poetica pronunciato a Stoccolma, raccontare e raccontare tutto “…perché il mondo intero sappia che genere di vita abbiamo vissuto, viviamo io, gli altri, noi tutti, a Istanbul, in Turchia…”, e farlo in un romanzo. Tra le motivazioni che portano Pamuk a chiudersi in solitudine in una stanza, c’è il credere “sopra tutto alla letteratura, all’arte del romanzo”, che è la costruzione o la ri-costruzione di mondi – e qui sarà chiaro perché lo scrittore turco ha scelto per soggetto de La notti della peste un’isola, per quanto credibile, appartenente all’invenzione sua e all’interpretazione e al sentimentalismo suo e dei suoi alias. Potrà pure permettersi di commentare, con candida sicurezza, nel quarantesimo capitolo: “Solo un poeta – non un romanziere, e certamente non uno storico – sarebbe in grado di descrivere la disperazione che calò sulla città…”.

Comunque. Negli anni Settanta, agli esordi, Pamuk scelse il romanzo, una forma di espressione che non aveva tradizione in Turchia, e si rivolse ai pionieri europei del genere, accettando la scoperta più attraente dell’Occidente (esprimere il punto di vista dell’individuo). Ha un senso non scontato parlare ora per Pamuk di grande romanzo senza tempo, dove il “senza tempo” è in realtà il tempo lontano della nascita del romanzo moderno, dei Balzac, degli Hugo, degli Stendhal, dei russi ma anche di Manzoni…

Ha tradotto Le notti della peste Barbara La Rosa Salim.

Credit: Orhan Pamuk no Fronteiras do Pensamento São Paulo 2011 by fronteirasweb is licensed under CC BY-SA 2.0.

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