UN BLOG
IN FORMA DI MAGAZINE
E VICEVERSA

Allonsanfàn
{{post_author}}

Dario Biagi. Figurine italiane, ritratti e memorie tra pubblico e privato

La scrittura è la traccia più fisica che un individuo può lasciare di sé. Lo dice Dario Biagi in Figurine italiane. Ritratti e storie tra un millennio e l’altro (Avagliano editore), ritrovando vecchi scritti paterni, di quando suo padre, il ragionier Biagi di Casteldebole (con accento posto, per mostrarsi mansueto, su quel “debole”), sorta di simpatico antieroe, debutta a trent’anni come pubblicitario per la casa di moda Borsalino.

Nel racconto Il Secondo, il figlio scopre umanità e entusiasmo nel genitore, le stesse qualità ad aver animato un’avventura in Brasile, presumibile Eldorado per impieghi promettenti, giornalismo e cinema, e che affiorerà nella vita di poi del ragionier Biagi, direttore di relazioni pubbliche, amante dei libri e dell’arte, estroso a suo modo pur in un’esistenza regolare e soggetta ad understatement. Ed eterno secondo. Anzi, il Secondo. Essendo il Primo, il primus, l’altro Biagi, il da lui venerato famoso giornalista.

La scrittura, comunque. È la scrittura, la concreta sincerità dello scrivente, il leitmotiv di Figurine italiane, raccolta di scritti brevi e meno, di memoria e riflessione (e di restituzione: vedremo perché) che a coronamento di carriera ci offre Dario Biagi.

Giornalista e scrittore di lungo corso, Dario Biagi illumina qui, a cominciare da quelli famigliari, momenti del passato apparsi oscuri e ora svelatisi in pienezza, oppure rischiara il viso di protagonisti a volte colti, rispetto agli eventi, in stato di una “secondità” simile a quella paterna. Questione di sensibilità oltre che di mestiere. Non per caso Dario Biagi è scrittore che si è messo al servizio di altri scrittori, spesso irregolari, spesso solitari, gente solitaria anche in mezzo a una folla.

Ha pubblicato biografie e studi su anarchici assodati come Luciano Bianciardi, su autori evidentemente sottovalutati come Giuseppe Berto, su geniali giornalisti/scrittori da impareggiabile one man show come Gian Carlo Fusco – a proposito, sta per arrivare in libreria con la curatela di Biagi un terzo volume con inediti fuschiani – ricostruendo vicende poco note delle loro carriere, in una serie di importanti scoop letterari i quali al giorno d’oggi purtroppo non entusiasmano le masse.

Che importa. La scrittura è pure resistente. Capace di attendere e risarcire: guardandosi all’indietro si può rendere giustizia a chi non abbiamo compreso mentre andavamo veloci per lavoro o per generosa ebbrezza, memori di trascorsi successi, come accade al celebre fotografo Angelo Deligio di Sorrisi e Canzoni TV sulla sua Mercedes 5000 – il ricordo di un servizio con lui, con gita in Baviera a casa di Derrick/Horst Tappert, è un pezzo di teatro che richiama addirittura Dürrenmatt (passato da Scola).

Con pazienza, Dario Biagi ritrae angeli non più trascurabili, come la signora Jametti – habitué al desco dei genitori, per quanto dimessa sapeva predire davvero il futuro – o personaggi in down di fama incontrati in occasione di studi o ricerche: Massimo Franciosa, la sua deliziosa compagna, la pittrice Simonetta Bardi, e l’attore Leopoldo Trieste, autentici sodali di Berto e pronti a mettersi a disposizione dell’amico scomparso. Oppure ex mattatori stanchi come un Vittorio Gassman quasi settantenne: in difficoltà ortodontica di fonazione a teatro, con una generosità malinconica e plateale regala però all’intervistatore un pomeriggio al mare da pari a pari (il sogno di ogni giornalista?), pisolando un po’ per lo scirocco e sgranocchiando Stecchi Ducali.

Quello che rende coesa, oltre che godibile e spesso divertente, amabile ancorché amara, questa processione di “figurine” è la riflessione sotterranea sul tempo trascorso, sulla differenza tra il giornalismo di una volta e quello del 2023, anzi, tra lo ieri e l’oggi tout court, quando non eravamo muniti di protesi in forma di smartphone: smartphone, dice Biagi, che ci sentiamo asceti solo a riporlo per un paio d’ore.

È una forma di risarcimento anche riassestare una reputazione: tra i ricordi del memoir, compare in nitide pagine un “dio irato” e morente, il dimenticato poeta Umberto Bellintani, autoreclusosi giù in fondo alla Pianura Padana; per caso, nei corridoi della Rai, si palesa con un ambiguo invito a pranzo un amico mancato – Tommaso Labranca, intellettuale infelice e sotto scacco di se stesso. Intanto si impilano i ritratti di imprevedibili maestri, crudeli e capricciosi – Sandro Mayer: credevate ci fosse un bonaccione sotto il parrucchino alla Pappagone? – o di uno dei tanti capi trovati nelle stanze Rai, votato al passatempo di umiliare i sottoposti, costringendoli a preparare coccodrilli a Ferragosto. Tra le pagine di riassestamento, segnaliamo naturalmente anche quelle (abbastanza dirompenti) dedicate allo zio/monumento, il quale è tipo da rifilare al nipote ragazzino, che ha finalmente preso coraggio per parlargli con il cuore in mano, una frasetta fatta di Hemingway o di Thomas Mann.

Dario Biagi

***

Concludo con un ricordo personale sulla lunga coerenza di Dario, alieno dalle trombonaggini o dai facili buonismi di tanti navigati colleghi anche illustrissimi. Ho diviso con Dario per un paio di anni, molto tempo fa, all’inizio dei Novanta, non proprio la scrivania ma una testata che ci aveva ospitato, lui era inviato, io r.o. – redattore ordinario.

In quei giorni lontani, un po’ alla Deserto dei Tartari, non avrei immaginato che avrei letto con piacere un libro su un passato che non passa scritto da lui, e che vi avrei trovato per protagonista lo stesso ragazzo incrociato nell’open space della Mondadori di Segrate.

Dario era un giornalista serio e rigoroso, che guardava sempre un po’ lontano – è un modo per dire che teneva la testa alta – ed era un intellettuale, sinonimo di persona intelligente, anche quando doveva occuparsi di vera e pura spazzatura: allora, nei settimanali popolari abbondava di già e cominciava a chiamarsi nobilmente trash.

Leggendo, mi sono (proustianamente) rammentato tante cose che avevo scordato, per esempio che Dario aveva l’ingenuità di mostrare agli altri di essere un ragazzo fiero, conscio della propria bravura e lontano dai greggi – ex grege fino a farsi una solida fama di antipatico. Ma tant’è: vi avviso che in questo libro Dario non è affatto antipatico, è soltanto ancora una volta e come al solito concentrato e solitario, e tutto il mondo (nel 2023 sommerso e annegato di trash digitale) sarebbe migliore se fosse un po’ antipatico come lui.

I social: