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Gadda. Il Giornale di guerra e prigionia con 75 pagine mai lette

È la notizia e bisogna darla subito ai completisti e ai fans più accaniti: ci sono 75 pagine inedite, che invitano all’acquisto del Giornale di guerra e prigionia di Carlo Emilio Gadda (vanno precisamente da pag. 410 a pag. 485), ripubblicato in versione accresciuta da Adelphi, a cura di Paola Italia e con una nota di Eleonora Cardinale.

In dettaglio: le 75 pagine erano comprese in 6 taccuini, ricomparsi rocambolescamente a un’asta nel 2019, e completano la disavventura del futuro ingegnere deportato in Germania in seguito alla rotta di Caporetto, prima a Rastatt, nel Baden, poi a Celle, nello Hannover (sono questi ultimi i giorni a cui i taccuini si riferiscono). Sembrano appunti presi l’altro ieri, inverando il luogo comune che accorda atemporalità ai grandi, e non scritti a ridosso degli eventi, “in fretta, di getto” da un Gadda poco più che ventenne, narratore della guerra e dell’internamento come di un tremendo scacco esistenziale.

Tutto il Giornale è una cronaca concitata e una radiografia impietosa dell’animo italiano, partendo da quello incupito e infelice del diarista, assoldato per la prima Guerra Mondiale – Gadda parte addirittura “interventista” e si trova immediatamente e funestamente smagato a vedere riprodotte, nell’orrenda caricatura che ne fa la vita militare, “fierezza, libertà, dignità” dell’uomo. L’intenzione di Gadda è scrivere, in assenza di un lettore, note “come memoria fuori dalla scatola cranica ma non meno secreta”. L’idea di affiancare alla parte per così dire cruda del Giornale, cui capita di essere compilato “per frammenti” scritti “in treno o all’impiedi”, un più ampio zibaldone di pensieri rimane invece disattesa. Anche se nella famosa Baracca 15c, detta “dei poeti”, la vicinanza con Tecchi e Betti fornirà un imprevisto côté (e conforto) letterario.

Comunque. Il confronto con la guerra e con se stesso, al debutto nel mondo, segneranno per sempre Gadda, svelandone la “sensitività morbile”, più spaventosa questa delle armi austriache. Scrive per esempio: “Mi manca l’energia, la severità, la sicurezza di me stesso, proprie dell’uomo che … agisce, agisce, agisce a furia di spontaneità e di estrinsecazione volitiva”. Eppure proprio la sofferta esperienza raccolta nel Giornale – scheggiata, anche formalmente distante dal Gadda che verrà – segna la nascita del meno imitabile dei nostri prosatori. Scrive Paola Italia, che il Giornale è “un’opera profonda e potente: pur difforme dai più celebri, e letterariamente atteggiati, diari di Soffici, Stuparich e Comisso, appartiene a pieno titolo alla grande letteratura di guerra, e basterebbe da solo ad assicurare a Gadda un posto nel nostro Novecento”.

Desiderate un breve riassunto sulle intricate e complicate gesta letterarie e umane di Carlo Emilio Gadda? Mentre ci si può appropriare della sua opera in via di ripubblicazione da Adelphi, viene comodo L’ingegnere in blu, dedicatogli da Alberto Arbasino (è un adelphino), dove si discetta del Gran Lombardo e della linea lombarda radicatasi in un funambolico plurilinguismo nell’immaginario Maradagàl (brianzolo-sudamericano) de La cognizione del dolore e nella Roma espressionista di Quer pasticciaccio brutto di via Merulana.

Si può magari partire, pensando al Giornale, dalla iniziale sfortuna critica patita da Gadda, ridotto spesso al rango di divagante umorista. Scriveva infatti De Robertis: “Solo la guerra, e la mortale fatica, sanno sprigionarlo da sé; altrimenti egli non sa guardarsi dall’indulgere ai mille richiami e, così indulgendo, un poco perdersi”. E invece, sostiene Arbasino, “in quella mesta pratica letteraria di paginette ‘ben scritte’ e di giardinetti ordinatini, di velleità rientrate e di reverenze funzionali, di animucce belle e di candeline spente, la derisoria violenza della sua scrittura esplodeva esasperata, contestando insieme il linguaggio e la parodia, tra il ron-ron rondesco-neoclassico-fascistello e il pio-pio crepuscolare-ermetico-pretino, in schegge di incandescente (espressionistica) espressività… Proprio come per Rabelais e per Joyce che gli sarebbero poi stati accostati, ‘a braccio’ e ‘a orecchio’, i suoi messaggi fanno a pezzi ogni codice, spiritate e irritate, le sue invenzioni verbali dileggiano significati e significanti; devastano ogni funzione o finalità comunicativa; rappresentano innanzitutto se stesse, e i propri fantasmi, in un foisonnement inaudito e implacabile di spettacolari idioletti…”. Traducendo questo Arbasino ci si allena già a tradurre Gadda.

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