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Allonsanfàn
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Nell’intimità e The Chronicles: due o tre vite di Hanif Kureishi

IntimacyNell’intimità è un diario in forma di romanzo, che dà un po’ d’ansia a chi legge, forse perché (esagero nel luogo comune) è sincero fino a essere spietato.

Hanif Kureishi, o chi per lui, cioè il suo (credo) autobiografico protagonista, si guarda per un’ultima volta e senza infingimenti allo specchio della bella casa londinese. Constata che la giovinezza se ne è andata – lui non è più il ragazzo che ascoltava Lennon o era degno di una canzone di Lennon (non ricordo bene, ma Lennon c’entrava) – eppure sente che non è scomparso lo spirito indomito di un tempo mentre deve decidere se lasciare la sua famiglia per un nuovo amore. Rimarrà? Se ne andrà, Hanif Kureishi?

Comunque. Intimacy è uno scritto chiaro e semplice – abbiamo detto che è un diario, un esempio di autofiction seppure più acuminato di quelli dei nostri spesso sfigati connazionali – e (leggo dalla scheda di presentazione Bompiani) “non lascia scampo… ponendo il più classico dei problemi: se si debba cambiare, essere diversi da come siamo, rinascere in altra veste… o continuare a camminare lungo il solco già tracciato. È il tema della scelta”. Cito Bompiani perché IntimacyNell’intimità è uscito di nuovo in paperback nella traduzione di Ivan Cotroneo.

Quando lo lessi tanti anni fa, nel 1998, pensai che Hanif Kureishi era un uomo egoista e crudele. Un narcisista, anche se dolente e moralmente combattuto, come capita di essere a molte delle persone che in qualche modo eccellono in mezzo alla gran folla dei mediocri – ai tempi, però, questo primato non mi piaceva troppo perché persisteva, in me almeno, il mito della folla ancorché composta da presunti mediocri, il mito cioè dell’uguaglianza di un popolo da piazza. Di certo, mi colpì meno il film che nel 2001 Patrice Chéreau trasse dal romanzo: vinse a Berlino nel 2001, mescolando a Intimacy un racconto di Love in a Blue Time, ma finisce col sopravvivere nella memoria come un catalogo di scene di sesso più hard del consueto.

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Un altro ricordo: ho visto di persona Hanif Kureishi, per puro caso, nell’estate (credo) del 1997, durante una maratona di musica e poesia alla Royal Albert Hall di Londra; ero riuscito a entrare nel backstage grazie al mio tesserino e al mio misero inglese e lui, impettito ed elegante, con lo sguardo scuro e un prezioso gilet ricamato che mandava bagliori d’oro – ma forse il mio ricordo è rimasto imprigionato in una serie di fotografie di Hanif Kureishi e dei suoi gilet -, chiacchierava amabilmente con Patty Smith e con Damon dei Blur, allora fidanzato in crisi di Justine degli Elastica… Altri tempi, ma erano tutti personaggi sulla cresta dell’onda.

Mi parve però di capire non solo che la musica era importante per Hanif Kureishi: non gli ha permesso soltanto il sodalizio con Bowie per il serial BBC tratto da The Buddha of Suburbia (Mondadori 1990) o di intitolare un libro non riuscito ma significativo The Black Album (Bompiani 1995, vedi la bellezza fulminante dello scrittore da ragazzo in quarta di copertina). La musica gli ha insegnato una spontaneità che si sente nelle pagine, nei tanti takes outtakes di una carriera. Kureishi è rock, direbbe un venerabile cretino di casa nostra.

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Chissà che cosa ascolta oggi su Spotify, durante la riabilitazione. Hanif Kureishi è stato costretto a un’altra scelta difficile da un incidente che, sotto Natale, lo ha completamente paralizzato. Stare zitto o parlarne, ovvero scrivere? Ha deciso di scrivere continuando a essere se stesso in un momento drammatico, e lo fa in modo toccante, a partire dal primo frammento del blog The Kureishi Chronicles – si può trovare su Substack (i dispatches sono gratuiti, le sottoscrizioni volontarie).

Incollo qui l’incipit: “On Boxing Day 2022, in Rome, after taking a comfortable walk to the Piazza del Popolo, followed by a stroll through the Villa Borghese, and then back to the apartment, I had a fall.

I woke up a few minutes later in a pool of blood, my neck in a grotesquely twisted position, my wife on her knees beside me. I believed I was dying. I believed I had three breaths left.

Now, without the use of my hands, or any other limbs, which is a considerable inconvenience, I write a daily dispatch from my hospital bed, which I dictate to my family who then send it out to you”.

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Per la foto di apertura, ho scelto una foto di un immortale Kureishi ragazzo

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