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Vera gioia è vestita di dolore. Quando Anna Maria Ortese scriveva a Mattia

La famiglia d’origine minacciata dalla guerra. Una sorta di esilio, scandito in toni leopardiani, nel borgo di Sant’Agata dei due Golfi. La vocazione letteraria, diventata realtà, che trova sbocco nei libri e sulle riviste e si nutre di viaggi reali o progettati. C’è Anna Maria Ortese (1914-1998), febbricitante di gioventù, e forse anche sul serio malata di cuore, nel denso volumetto Vera gioia è vestita di dolore. Lettere a Mattia (Piccola Biblioteca Adelphi). Niente fiction, né autofiction, per carità, è un corpus di cartoline e lettere spedite da Napoli o da Sant’Agata, tra il 1940 e il ’43, all’amica Marta Maria Pezzoli detta Mattia, studiosa di lettere e timida poetessa in proprio.

Si tratta di una tranche de vie preziosa per le date: Angelici dolori è del ’37, L’Infanta sepolta del ’50; e insieme è un esempio illuminante – ma forse tutte le missive di una volta si scrivevano con il cuore sulla punta della penna, altro che sciape email e pigri whatsapp – un esempio, dicevo, di “sorellanza”, parola magica e segreta per sodalizi femminili antichi e proto o già femministi. Qui Ortese la spende per andare alla misura di se stessa seppure nel lamento costante sulle supposte e continue inadeguatezze di cui chiede perdono. E che peccato si siano perse le risposte di Mattia.

Comunque. L’umore di Ortese è un’altalena: alcune missive sono disperate fino a promettere il silenzio, e contengono nei post scripta notizie di morte – quella del fratello Alberto in Albania – e lo sprezzo per questa vita o per la vita in sé; altre, invece, poi prevalenti, contengono brillanti progetti. Tra schegge di poesie e accenni ai racconti, Ortese ritaglia un’avventurosa trasferta a Sanremo per i Littoriali, e tenta di mettere insieme in uno stesso agognato viaggio una serie di incontri, compreso quello con Mattia, mentre nello scambio postale affiorano sicure antipatie e decise ammirazioni.

Tutta l’invidia va ad Alba de Céspedes, bestsellerista stroncata in un’ardita critica da Mattia. La pace può trovarsi invece in un’immagine. Ecco che su un giornale il viso di un maestro d’orchestra “chiama” Ortese – lui sarà assente, ma la scrittrice verrà travolta dalle emozioni di una Notte sul Monte Calvo – ecco una fotografia di Caterina (sic!) Mansfield, nei cui occhi, scrive Ortese a Mattia, c’è “il candore e il mistero del mondo”. Ecco che in mezzo agli incanti di Firenze, finalmente raggiunta – Ortese sembra filtrarli attraverso le pagine del Convivio – compare per un attimo un giovane ubriaco, che sarà un breve amore, il poeta Alfonso Gatto.

Carteggi così, schedati con cura e intelligentemente commentati, forniscono utili materiali per capire una vita che sarà tormentata e baciata dal talento e spesso avvolta in uno scontroso mistero. Già in queste lettere Ortese capisce e ammette quasi con ingenuità che per lei “la gioia è quasi sempre nella sofferenza”, che la sofferenza è la sua “vera patria”, da lei adornata come “una cosa diletta, come la terra, la casa che amo”.

Affine a carteggi femminili di altissima levatura, secondo il curatore Monica Farnetti – cita quelli di Arendt e di Zambrano, oltre a nominare spesso sua maestà Virginia Woolf – questo titolo di Ortese non ci offre un altro libro della scrittrice, ma mostra il seme dei libri venturi – anche dei più equivocati, come Il mare non bagna Napoli (1953), uscito nei Gettoni di Elio Vittorini: segnò la separazione definitiva di Ortese dalla città, mentre ne stabiliva la distanza dal neorealismo. Il lampo, la serie di lampi, che rende viva Ortese nelle lettere a Mattia ci tocca ancora, riportandoci ottant’anni dopo a un’eccezionale gioventù.

A margine. Riguardo al grande scazzo tra l’autrice e Napoli, Ortese si spiegò bene in uno scritto premesso a una riedizione de Il mare non bagna Napoli (Adelphi, 1994): lei stessa si era accorta a posteriori che il libro comunicava una personale nevrosi e uno spiazzamento che poteva anche prendere il nome di metafisica… Forse Ortese si era messa gli occhiali come la piccola Eugenia, la bambina “cecata” del primo racconto, bello per quella sua pagina finale in un modo che lo rende straziante e non addomesticabile.

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