Paolo Salom, giornalista della redazione esteri del Corriere della Sera, con il suo Un ebreo in camicia nera (Solferino), ci consegna non solo una testimonianza rivissuta nella narrazione, ma ben altro.
È un tentativo, coraggioso e riuscito, di trasformare una piccola storia di famiglia in una significativa cartina di tornasole per capire la storia più grande che l’ingloba. È un chiaro tentativo di elaborare una memoria difficile, con nervi ancora sensibili.
L’autore ricostruisce la vicenda della propria famiglia, del papà Marcello, del nonno Galeazzo (nato e vissuto prima in Romania e poi a Padova) e nonna Golditza (chiamata Aurica, figlia di ebrei religiosi e tradizionalisti), ebrei vissuti fra Padova e la città rumena di Galatz.
I Salom sono ebrei italiani da generazioni; Aurica, ebrea rumena, sposando Galeazzo acquisì la cittadinanza italiana. I figli nacquero ebrei italiani. La famiglia alternava i periodi ordinari a Galatz e brevi vacanze estive fra Venezia e Padova, presso i parenti ebrei italiani. Le vicende poi scorrono, si giunge alla scelta di Galeazzo di convertire la famiglia al cattolicesimo, con l’opposizione ferma della moglie. La decisione venne assunta per opportunità, per rincorrere una tranquillità di vita, per evitare le decisioni persecutorie del regime nazifascista. Non fu sufficiente. La RSI e i tedeschi occupanti accentuano la persecuzione. La famiglia Salom trova rifugio prima presso don Mario, parroco in Santa Rita a Padova, poi presso la clinica Frida del professor Ballantini, allievo a Torino del professor Levi, privato dell’insegnamento dalle leggi razziali, alla periferia di Padova. Situazione non sostenibile. Assistendo a un duro contrasto in famiglia, Marcello lascia la clinica alla ricerca di una propria autonomia. Approda a Milano, poi a Como, tenta la fuga in Svizzera, alla ricerca dei parenti Voghera; viene arrestato dai fascisti, Marcello si adegua, veste la divisa con camicia nera e teschio sul berretto; nasconde la propria identità di ebreo, cerca di sopravvivere. Si conferma, giovanissimo quasi mascotte, nelle Brigate Nere, fino a giungere a ridosso della Linea Gotica. Poi l’arrivo degli Alleati e la Liberazione. Il resto della famiglia lasciò la clinica Frida dopo un anno e si collocò in una fattoria nei pressi di Trebaseleghe, vicino a Camposanpiero. Si ritrovano.
Abbiamo di fronte un romanzo biografico famigliare, rigenerato però con un velo storico. Il pregio del libro non sta affatto nel canovaccio narrato, pur intrigante e insolito, ma nell’originale operazione di intarsio in molte pagine di ricorrenti tasselli storici e sociologici, di sfumature psicologiche.
Paolo Salom ha certamente elaborato la memoria difficile della propria famiglia ebrea, ha avuto il coraggio narrativo di costruire un romanzo biografico, ma soprattutto ci regala un dosaggio equilibrato di vita vissuta e di contesto storico appropriato.
La severa persecuzione degli ebrei compiuta da tedeschi e fascisti della RSI, il soccorso prestato da parroci e cattolici, il rifugio sotto falsi nomi in ospedali e cliniche, la certezza poi smontata di essere salvi perché ebrei italiani e persone agiate, l’efficacia condizionante della pervasiva propaganda fascista, la perenne illusione della vittoria mentre ormai gli Alleati approdavano in Italia, la mancanza assoluta di libertà nel pensiero e nell’attività: tutti ingredienti di una narrazione a confine fra memorialistica e sintesi storica.
Il libro ci fa percepire la gravità del momento, arco temporale dove molte famiglie ebree erano perseguitate, i docenti ebrei dovevano lasciare l’insegnamento, i giovani dovevano lasciare la scuola; come vi fosse perenne il terrore del controllo e della cattura. Le pagine di Paolo Salom ci danno ampie prove di questo clima e violenza alla dignità umana.
Per una conoscenza e ricostruzione storiche non sono sufficienti archivi, documenti, atti, ma servono anche diari, memorie, testimonianze. Quello di Paolo Salom è un incontro diretto con la storia di una famiglia, attraverso il velo della storia di un popolo.
Da Un ebreo in camicia nera (Solferino) di Paolo Salom:
“…E poi c’era quel tarlo che continuava a scavare nella coscienza del capofamiglia, il desiderio inconfessato di farla finita una volta per tutte con le discriminazioni, con l’idea di essere diversi dal resto dei cittadini: “Siamo italiani, noi, e basta mormorava tra sé e sé Galeazzo quando veniva sollevata la questione dell’identità, delle differenze tra Romania e Italia. Nel 1938, insomma, ormai distaccato dagli altri membri della famiglia padovana, Galeazzo si sentiva fisicamente e culturalmente lontano da quella particolare forma di appartenenza religiosa. Per lui contava soltanto l’identità italiana (e fascista): l’avrebbe fatta prevalere su tutto il resto. E, in un mondo dove l’essere ebrei cominciava a rappresentare un serio pericolo, non c’era che un modo: convertire moglie, figli e se stesso al cristianesimo. Una volta battezzati, una volta abbracciata Santa Madre Chiesa, tutto sarebbe cessato all’istante…”.
“…Niente di tutto questo contava, ormai. Il tempo della razionalità era finito. La sua avventura era iniziata. Il cuore batteva forte e il viso appariva contorto in una smorfia a metà tra il sorriso per la decisione infine presa e la paura di quello che avrebbe dovuto affintare: i fascisti, i tedeschi, i bombardamenti e, insomma, tutta la devastazione umana e morale di un Paese annichilito dalla follia partorita da un’ideologia incapace di comprendere la realtà ineludibile dei rapporti di forza…”.
“Marcello sopravvisse: e oggi possiamo con serenità dire che fu un miracolo. Ma si portò nell’animo, fino al suo ultimo giorno, le cicatrici di eventi devastanti, di decisioni prese con l’immaturità dei suoi quindici anni che, nonostante ogni cosa fosse scaturita dall’istinto di conservazione, lo avrebbero tormentato a lungo”.