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Allonsanfàn
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Barcellona, una passeggiata

Sarà eternamente grata a Gaudí, Barcellona, non tanto per i meriti artistici che già all’epoca le istituzioni gli contestavano – vietandogli o cercando di riportare certe chiamiamole estrosità dentro i parametri del buon gusto cittadino, e quindi nell’aurea mediocritas che sarebbe sempre il massimo consentito per chi si diletta nel fare dell’architettura un’arte dovendo fare i conti con soprintendenze e pastoie burocratiche a meno non abbia soft skills ed entrature di livello (ma Gaudí stesso in quanto a permalosità non era meno tignoso: disposto anche a rinunciare come nel caso della Milla purché fosse messo per iscritto e affisso con targa celebrativa a futura memoria quanto gli era negato) – e sarebbe più opportuno allora chiamarli bizzarrie, di culto magari ma sempre ciondolanti sul periglioso ciglio che separa l’originalità dalla patacca. Ma tant’è, a giudicare dalle frotte dei turisti col naso all’insù, o in posa pur essi per osmosi plastica davanti alle presupposte meraviglie dello sbilenco e del creativo tout court sul seggiolone messo lì apposta davanti alla Casa Battlo per instagrammabili sorrisi che una volta si sarebbero detti da deficiente, non si può che restare attoniti al punto di considerarlo un genio, il Gaudí sempre, perché che altro è un genio se non colui che sopravvive non solo a dispetto dei contemporanei che lo riconobbero come dandy e al massimo in epitaffio straordinario artigiano ma pure alla gloria dei secoli e agli omaggi tardivi, alle strutturali citazioni, alle plastiche rivisitazioni, ai debiti inconsci degli epigoni… risignificazioni, storicizzazioni, riletture, riscritture, rimemorazioni, rielaborazioni… si dica mai che hanno copiato come sempre si fa dai maestri, dopo solo dopo che sono diventati tali? Ringraziano ovviamente pure i gaglioffi che si appostano all’ingresso delle scale mobili per gli ignari giapponesi che chissà perché, pure loro per immeritato cliché, pur essendo sbollettati da più di un decennio, restano nell’immaginario della controparte, ovviamente nomade per consolidata fama, i polli mansueti gonfi di soldi da spennare: ci rimangono quasi male quando le nipponiche si accorgono delle intenzioni e iniziano a urlare in quel loro modo perentorio tanto che al malandrino non resta che mettere su lui l’aria dell’offeso disturbato nell’esercizio di quello che considera un lavoro, mentre al compare più alto e piantato finito di coprirgli le spalle nel furto con poca destrezza non resta che far da Sancho al contrario nel mentre il tozzo con mani di fata sgamata non la smette di borbottare fingendosi loco nella fuga perentoria, ma compassata, a uso e consumo di eventuali spettatori, io in questo caso perché comunque nessuno sembra essersi apparentemente accorto di nulla sul Passeig di poca Gràcia, e la volante che sopraggiunge meno di un minuto più tardi è accorsa per scongiurare la vendita da marciapiede di calamite celebrative della città che hanno sostituito le cartoline coi “saluti da” – sempre Gaudí mica Isozaki, Nouvel, Ito, Calatrava, Vázquez, Perrault… – e magliette blaugrana tarocche dei poveri neri, qui appellati moreni, appena fuggiti con il loro fagotto facendo il cammino inverso ai due gaglioffi giù per le scale della metro, lasciando tra la coda per l’accesso e quella per la foto sul seggiolone, qualche cianfrusaglia non si capisce se per sbadataggine, fretta o sapiente contropartita per fare contenti gli sbirri e aver in cambio la libertà. Tant’è, si diceva della gratitudine che ogni metropoli, città o borgo che sia deve alle attrazioni chiamiamole pur sempre turistiche anche se l’effetto al di là dei meriti riconosciuti dagli storici dell’arte e ripetuti dalle innumerevoli guide con codazzo di disattenti auditori, ora pure raccolti in gruppi in bicicletta – e presto va da sé in monopattino visto che la biga è già passata di moda – perché se anche la meta non merita allora almeno che si venda l’esperienza, come recita la Nouvelle Vague del viaggio mordi e fuggi di ispirazione cambogiana, weekendino a Barsa? amo o raga che sia?, l’effetto di fronte a tanta generale assuefazione al tipico e al pittoresco e all’itinerario dei luoghi più trendy su input dei content creator un tempo blogger poi influencer per cosmopoliti al passo coi tempi e con la passione per il décor è quello del rigetto e la sindrome quella del bimbo che alzerebbe volentieri il ditino a indicare il re nudo con fantozziana meraviglia: non sarà propria una cagata, dico tutta questa festa mascherata di orpelli decorativi tra il carnevale di Venezia, la pubblicità del Das, l’anatomia cronenberghiana, le metamorfosi cremastiche di Matthew Barney e il cubismo rivelatosi tale dopo il lavoro di Picasso che forse cuba ancora solo nelle manovre della Giorgia?

Perché che altro c’è a Barcellona, altro posto per italiani in fuga qualche tempo addietro solo per dire a chi restava che non sapeva cosa mai si perdesse, in termini meteo, di opportunità o di joie de vivre quando, finito il giro del ce n’è per tutti fatta salva la voglia di mettersi in gioco, ora non ci migra più nessuno? Sarà venuta meno l’attrazione magnetica o forse si è saturato il mercato degli architetti e nessuno ci aprirebbe nemmeno un ristorante, tanto meno esaurita la vena di creator verrebbe a fare il cameriere in competizione coi sudamericani col progetto basico di aprire poi un chiringuito. Per fortuna loro, non sembrano, gli autoctoni, sentire la mancanza di una vita senza pizza e amatriciana col guanciale, mentre a noi la paella tutto l’anno anche no e nemmeno si può passare la vita a menare il torrone con l’ambiente di design o seduti sui trespoli rétro a cicchettare calamari e seppioline perché fa molto introdotto nel mood giusto pure se per caso mi ritrovo al Mercat de Santa Catarina rivisitato da Miralles&Tagliabue in ottica iper-contemporanea ma sempre debitrice al Sommo Plasmatore Catalano nelle linee ondulate e nelle ceramichine colorate declinate fino al trencadís delle ciotoline per la tradizionale crema e ci sono oramai, per l’imperdibile food experience, soltanto turisti a farsi ispirare palato e mente. Dico solo che allo stellato appena fuori Girona dove sono stato ospite sperimentano l’olio tartufato sugli involtini di sogliola e la torta di mele col burro di noccioline. Sembrano piuttosto qui riconoscere un certo credito gastronomico sulle insegne all’Austria e a Vienna – senza una enne – ma si sa ognuno si cerca l’esotico dove gli pare.

Venendo giù dalla Diagonal, sorta di Spaccanapoli in versione boulevard parigino, quindi armoniosamente elegante ma priva di guizzi anche estemporanei da guitto partenopeo, si finisce così per apprezzare, al di là delle scarse attrazioni… vogliamo parlare della Catedral e del Barri Gòtic? Ma allora non ci salva nemmeno la predisposizione che considerava quel tale a Sofia secondo il quale bisogna essere umili nel valutare essendo noi italiani, e quindi per eredità sottoposti alla bellezza che pur quando non è grande in assoluto è sempre meglio, perché subito sovvengono chiese maestose e caruggi assai più elaborati magari proprio quando meno riveduti in ottica si direbbe inclusiva (solo un sinonimo per chi va nel mondo in cerca di sicurezza), come se uno che giudica dando per scontato d’essere superiore fosse più obiettivo di chi non rinuncia a fare paragoni… si finisce per apprezzare, abbozzavo, l’urbanistica (che non si dica non mi piace mai nulla visto che di merda per quanta ne si ingoia nella vita tutti dovremmo reputarci esperti). Non è solo la diagonale allora, ampia e definitiva a percorrerla passeggiando, sia pur con pié veloce, se no ci lasci mezza giornata, anche se a certe ore diventa intrattabile e insufficiente per il traffico sopra e sotterraneo, sono tutti questi viali maestosi ai lati dei quali si innalzano platani e palme e pure alberi di arance lì pronte a portata di mano, con rondò pensati già in origine e non sovvenzionati dalle paturnie della UE a evitare gli incroci geometrici, con un certo gusto anche nell’abbinamento floreale periferico come a Plaça de Francesc Macià che dovrebbe essere presa ad esempio dai comitati cittadini milanesi di Zavattari e Loreto, lontani dall’essere affollati per larghezza pedonale tanto che i runner se li fanno di corsa avanti e indietro, senza tema apparentemente d’essere insultati per i droplet virali e dell’esser privati del riposo che dà una curva ogni tanto, un mutamento di prospettiva e di orizzonte, forse perché sapientemente il carico umano in transito occasionale è dirottato tutto sulla Rambla e nel resto della città pure quelli che sono segnalati sulle Maps come luoghi di interesse anche al sabato, come oggi, appaiono sovrascritti come “meno affollati del solito”.

Viali che tracciano esistenziali il senso quotidiano dell’andare anche quando invece si rientra, massimamente per chi è abituato ai girotondi meneghini che sempre ritornano al punto di partenza come circolari emicranie, rassicuranti quasi se pure il rasta che si arrotola le cartine su una panchina e il tipo sotto la coperta gialla che dorme, forse, o forse è morto da un pezzo, o è un fantoccio teaser versione ninja marketing con le scarpe di fuori davanti a Sleep.8, sono ancora lì nell’identica postura quando prima del tramonto rinculo in direzione del transfer per l’aeroporto. E distraggono, forzando lo sguardo sul punto di fuga, da quella pletora di archetti balconcini con seggioline porticine colonnine figurine caminetti finestrine mansardine persianine ovvio suddivise in rettangolini a scanalature sopra vetrate anch’esse ritagliate in pezzettini su facciate che si duplicano e triplicano su se stesse quando in cristallo non sono anch’esse sminuzzate per mania di miniaturizzare e poi frontoncini neoclassici ogivine inferriate di ferro battuto oblò da nave da crociera pinnacoli gargoyles capitelli ricami floreali da modernismo catalano sui cornicioni (ma pure sotto) pseudo Gaudí brandizzati Fendi bandierine indipendentiste bovindi araldici stucchi arcimboldiche cupolette e torrette su palazzi che divengono sempre più ossessivi man mano che si procede verso un centro che non c’è e potrebbe essere la Placa de Catalunya forse, troppo poco piazza e troppo girello per perditempo in cerca di una centrifuga… Che quasi si tira un sospiro di sollievo davanti al poligonale edificio della Corte Ingles, rinascente come riscatto dei monoliti senza fronzoli.

Sarà per questo che Gaudí spicca ancora o meglio spacca? Per contrasto con tutto questo geometrico ordine maniacalmente stilizzato in paranoica coazione a ripetere e in barba al dialogare degli elementi sul quale insistono le archistar progettando banalità come vele sul Mediterraneo e suppostoni nemmeno ironici speculari ai montarozzi dietro in cartapesta che fanno tanto presepe? Ma dove sono i local, forse tutti al mare per sfuggire l’assalto dei turisti ai quali è concessa l’occupazione temporanea che in perpetuo circolo diventa definitiva? Sopravvivono gli anziani col baffetto e le damas col rossetto sempre più carico quanto più in là negli anni come fosse un capoterosso alla corrida. Ma mediamente vestiti male, con troppi colori quasi sempre tristi e abbinati senza gusto, con giacche maron e beige e amàranda mezza stagione (chi a spalle nude chi con sciarpone al collo) e trequarti cammello o senape o bordeaux pure già sul finire di novembre e gonne sotto il ginocchio con pattern ondulati tipo pavimentazione della Rambla, velluto a costine o gilet di maglia, béret e papillon, cardigan a losanghe, penny loafer borgogna, cappottoni check e impermeabili stazzonati grigio Sagrada e fuori taglia di chi è venuto su educato non alle raffinatezze italiane del Rinascimento ma alla maniera scura del Goya non potendosi più dare arie di corte, e soprattutto inconsapevole d’essere invece celebrato come eclectic grandpa o grandpacore in quanto tendenza del 2024, quella modalità streetwear tra il centro sociale e la casa di riposo, e infatti le ragazzine dell’Erasmus centro nord europeo che praticano il goblin mode (le mamme ci dicevano “sconcio” ma noi facevamo ad arrangiarci, calpestando le Stan Smith quando erano troppo bianche e rattoppando da soli i jeans, e le camicie ci duravano almeno fino al primo colloquio di lavoro serio che non sarebbe arrivato mai, loro pagano i brand alternativi a prezzi di boutique e gli straccetti cinesi a prezzi stracciati e si entusiasmano per Acne che distoglie l’attenzione dai brufoli in attesa che qualcuno investa su un Ruga brand luxury per boomer) si integrano alla grande coi loro giubbotti sformati racing, i maglioni all’uncinetto, i jeans svasati, le brogue con le fibbie e le sneakers finto sbadate. Solo i maranza con tuta e felpa e Nike sono uguali ovunque.

E la Sagrada Família allora, non era meglio dieci venti trent’anni orsono? A un grado più basso della sua costituzionale incompletezza (ci marciano rimandando a data da destinarsi la definitiva realizzazione, che pare ovvio renda più nel continuo farsi che moltiplica i ritorni e le prenotazioni), senza i puntali da albero di Natale o quelle decorazioni in cima da torta nuziale pacchiana poi riprese, ora, nei pressi delle feste ormai prolungatesi da metà novembre come il Black Friday che dura una settimana, nelle luminarie, con quella stella del mattino tridimensionale a dodici punte replicata ovunque, appesa o stesa in attesa di illuminazione come un mollusco cefalopode… E quel lettering declinato nelle sfumature del Pantone da rosso a ocra che ora fa l’effetto sulle intorcigliate guglie delle insegne sulle trattorie che si fingono gotico-medievali?

Dov’è la Barcellona incantatrice e lisergica, quella di Mirò e delle piazze vissute la notte, delle ragazze e del fumo, degli acrobatici amplessi nei peepshow, delle spiagge dove sfuma la città, come miraggi desolati, dei miei vent’anni? i balconi erano occhi di gatto, denti di pescecane, sui tetti i camini erano sentinelle, guerrieri, soldati, c’erano torri e mura merlate che parevano costruiti con un mazzo di carte da gioco… c’erano rane e coccodrilli variopinti, marciapiedi lastricati con pietruzze di ogni forma e colore, torri a forma di Calippo, e cupole e finestre che parevano di crema e cioccolato, lampioni che si arrotolavano su se stessi come rami di un albero, giganti di marmo e castelli di elfi… la Barcellona visionaria e mistica che si fa beffe dei piagnistei e dove Robert Hughes si sentiva di casa forse proprio perché politicamente scorretta (per questo amava così tanto Gaudí, “cera liquida e interiora di gallina”), non quella risolta dei Montalbán e degli Zafón, quella incompiuta di Bolaño che farebbe girare, arrivasse in bottiglia in forma di manoscritto, la testa agli editor di casa nostra che hanno a cuore la tranquillità sepolcrale dei loro lettori al punto da accompagnarli per mano nelle loro passeggiate letterarie dove è vietato perdersi e fa orrore uno stronzo, mica certo il caganer. Questo lo pensavo ieri mentre guidavo sulla Diagonal in direzione Girona trastullandomi con l’idea che le strade determinino le linee narrative di certi scrittori, rette o circolari o a campana se sei Cortazar, mentre trapanavo le caselle quadre della scacchiera urbana da parte a parte seguendo la direttrice del tunnel sotterraneo e poi ancora rifacendo la stessa strada al ritorno col sole in faccia delle cinque di sera, in un delirio motoristico scorrevole come una marea rassegnata, dopo aver scoperto di pensarla uguale su Berlino al pranzo organizzato per l’evento con un’attrice tedesca, anche lei ignara di cosa esattamente ci stesse a fare alla presentazione di un’auto, il navigatore che sdoppia la strada per arrivare all’Hotel Sofia – per cortocircuito non la Sofia del mio ultimo viaggio, dimessa e sbilenca e charmant, con i reduci aggrappati a una bandiera a difesa del monumento all’Armata Rossa che vogliono buttare giù come nella Rosario poi appena sfiorata vorrebbero fare con quello del Che – dove ad attendermi c’è una hostess di Buenos Aires che si illumina a parlare di Milano mentre le dico che andrò presto nella Capital e tutto sembra avere un senso, sia pure fragile e illusorio come certe frasi sognate la mattina prima di svegliarsi, perfette, e poi perse chissà dove. Dove non sono io.

All’incrocio tra Passeit de Grácia e la Gran Via de les Corts Catalanes dondola non ancora accesa per la notte l’insegna BARCELONA, spenta fa l’effetto di una lisca appesa, gettata dopo un pasto esagerato in compagnia di Frank Gehry a qualche gatto randagio, le scaglie dorate di El Peix disperse nella brezza che monta dalle spiagge, un immaginario bruciato per troppa presenza come certi personaggi prosciugati dallo show business e certi scrittori obbligati alle scadenze del mercato. Pure la pattumiera per raccogliere le foglie di platano secche ha la forma sinusoidale di una borsa paraboloide per l’especialista che appena si curva, lieve, a raccattarle.

Poi, laggiù in fondo, ci sarebbe il mare.

Fotografie e video sono di Gabriele Nava

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