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Allonsanfàn
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Thomas Bernhard al Gelo

Osservare un pittore per conto del fratello chirurgo, suo mentore negli studi di medicina, e farne un rendiconto: è il compito segreto del giovane narratore, un praticante (anche della vita), che si reca con un treno fantasma, lordo di sangue d’uccello, in un isolato paese di idioti, cioè di gente comune – un paese sorvegliato a valle da una fabbrica e da una centrale elettrica in costruzione. Per far luce nella sua indagine, ospite di una ripugnante locandiera, l’uomo si è portato dietro non testi di medicina ma la sua insicurezza – gli eroi moderni in ultima istanza nascono dall’insicurezza, che è in nuce ansia, paura, disperazione – e un libro di Henry James (non si dice quale ma io immagino contenga il racconto The Beast in the Jungle).

Il pittore Strauch che abita la valle ghiacciata di Weng – “Weng si trova in una fossa scavata durante milioni di anni da enormi blocchi di ghiaccio”. “Il ciglio dei sentieri invita alla lussuria” gli abitanti nani e deformi, stolidi e feroci, che la popolano – il pittore Strauch, dicevo, è un uomo disperato, col pensiero costantemente vòlto al suicidio, e sa che il “gelo” che si propaga ovunque è “l’antipatia verso se stessi” poiché “è dentro che si gela”. Ma quando è in cammino nel suo continuo girovagare e si ferma a pensare e a strologare nel bosco, o si accoccola da qualche parte, rischia di finire realmente morto assiderato.

Ecco Gelo (Frost) di Thomas Bernhard, poeta e scrittore qui al primo romanzo, quando il rap del grande prosatore austriaco non è ancora formato – niente cerchi di musicali e ossessive ripetizioni: quel Bernhard nasce dopo Gelo, Amras (1964) e Perturbamento (1967), e debutta ne La fornace (1970). Ma già vige l’artificio di raccontare una storia o un episodio di vita, fidandosi (fingendo di fidarsi) del racconto e del punto di vista di una persona a sua volta coinvolta nella situazione.

La forma è appunto quella del Bericht, del resoconto. Il giovane medico riferisce a un terzo, e insieme anche a noi, vita e opinioni del pittore che (sembra) è già impazzito o sta finendo di impazzire. “Nei suoi libri, [Thomas Bernhard] racconta solo quello che ha sentito dagli altri. [Per questo] la narrativa di Bernhard non è stata compromessa in alcun senso… Così ha inventato, per così dire, una sorta di forma narrativa periscopica”, nota il grande fan Winfried Sebald (intervista radiofonica del 2001), passando per la scuola di Francoforte e ribadendo l’identità tra problemi estetici e etici. Sottolineo: Bernhard non è mai “compromesso” e dovrebbe essere inutile specificare riguardo che cosa.

Adelphi ripresenta Gelo nella traduzione (rivista) di Magda Olivetti. La prima uscita del romanzo risale al 1963 in Austria e al 1986 in Italia per Einaudi, edizione più tardi ribadita con prefazione (filosofica) di Pier Aldo Rovatti. La copertina, che per Einaudi era uno spettrale e quasi scontato autoritratto di Edvard Munch è adelphianamente meno plateale e prevedibile, uno schizzo a inchiostro di Victor Hugo dall’album Choses à la plume – sulla scelta delle cover italiane di Bernhard, legate alla riscoperta di Léon Spilliaert, e sul gradimento di queste da parte dell’austriaco, c’è un interessante aneddoto nel saggio L’impronta dell’editore di Roberto Calasso (Adelphi, 2013).

Thomas Bernhard nel 1970

Comunque. Thomas Bernhard è l’uomo che scrive, avvertendo alle spalle e guardando con nessuna fiducia la grande stagione romantica e il pur riconosciuto connubio arte malattia di Novalis (scelto tra l’altro per l’esergo di Amras); e piuttosto, nell’isolamento e alla luce di ogni fallita brama di perfezione, con il martello della sua prosa fa in pezzi sempre più piccoli, disseminandoli nel testo, l’apparente quieto vivere austriaco: lo aiuta Strauch, come lui ben conscio che l’unica via percorribile per prendere sul serio l’esistenza è quella di guardarla da morto, tra i morti. Ne fa fede la fulminante riflessione sul ridicolo e il tragico di pag. 292, che ci dice qualcosa anche del tono del romanzo che al ridicolo (“infinitamente più potente di ogni altra cosa”) paga con costanza pedaggio. D’altronde: “Es ist alles lächerlich, wenn man an den Tod denkt” (Ogni cosa è ridicola, se paragonata alla morte) recita l’aforisma wiki più citato di Thomas Bernhard. E ora, ovunque Strauch si volti, nel suo forcing filosofeggiante e nel suo desiderio distruttivo, ovunque ci voltiamo noi con lui, non sembra esserci speranza di recupero o di rigenerazione. A cena, alla locanda, Strauch rifiuta “il pasticcio di fegato [perché] è un pezzo di cadavere”. Più avanti, è pronto a convincere il suo giovane biografo, ormai atterrito, che “la gente abita dentro a dei cimiteri” perché tali sono le città e che “l’intera esistenza è una perpetua prova di come si viene composti nella bara e di come si viene sepolti”.

Scriveva con eccessiva fiducia in una pars construens Rovatti: “…e se [la follia del pittore] fosse la scoperta di un modo di vedere le cose e abitarle? Se fosse l’inizio di un congedo dalle nostre abitudini, incistate, spesso infette e marce, loro sì sintomo di una malattia da cui ogni giorno ci facciamo tranquillamente guidare? L’inizio di un congedo da ‘un’altra follia’, quella che ci paralizza nelle nostre scatole che portano l’etichetta normalità?” (Einaudi, 2008). Potrebbe profilarsi una rivoluzione privata anziché politica: di certo, Bernhard ostenta la minima fiducia in una rivolta sociale dei contadini della valle e degli operai della Centrale elettrica, non fa per venire incontro a loro neanche lo sforzo di prestargli un’utopia farlocca atta a illudere gli ultimi. Finita la guerra – non capisco bene perché ma, forse per l’esistenza rozza e basica che regna nel consesso umano di Weng, penso alla Prima guerra mondiale, e invece è la Seconda – ecco, lo scuoiatore del paese non fa a tempo a levarsi la lugubre divisa di soldato, che già si è impiegato come becchino.

Mi sembra che Bernhard di pagina in pagina scarti ogni via d’uscita, tramite l’esaltazione nichilista di Strauch, nemmeno fosse un pronipote di Adalbert Stifter ma al contrario. La funzione dell’isolamento non è preservare in una luce crepuscolare le piccole cose che valgono ancora dell’Austria extra urbana, Strauch, e Bernhard con lui, si è sepolto vivo a Weng per distruggere quel che gli resta del mondo.

L’esistenzialismo beffardo permette persino che ci si lamenti furiosamente dell’eterno ritorno dei momenti più stupidi e futili e nel contempo della loro più completa dissoluzione. Proprio il tempo, che fornisce la cornice narrativa di Gelo, divisa nei giorni di visita a Weng dell’osservatore (27), illude il lettore il quale si aspetta uno sviluppo di trama che in realtà è solo accennato, corre sotto traccia, in una prospettiva azzerante e con una conclusione quasi obbligata.

Esiste però la possibilità, scavando nel testo, di trovare racconti o schegge di racconti che potrebbero esserne addirittura estrapolati: per esempio, Nell’ospizio dei poveri (pag. 118) che, sotto una titolazione anomala rispetto al resto del romanzo, offre alcune tra le pagine più potenti e allucinate di Gelo – c’è un uomo morente o più teatralmente già cadavere nell’atto di leggere il benefico calendario di San Severino, una sorta di secret sharer-compagno segreto della madre superiora che gestisce il rifugio, ovvero l’imbonitrice cattolica che gli sta rattoppando la giubba. Oppure si può ascoltare un assaggio della fine che ci attende nel monologo Il latrato, altro sotto capitolo (pag. 171), o perdersi nello stralunato frammento dell’operetta morale Storia di un vagabondo (pag. 265).

Basta chiacchiere. A voi Gelo con i suoi temi sparsi e ricomposti: l’arte (“il più celebre dei bambini nati morti”), la scienza medica, il corpo, la malattia, il lavoro – a proposito: non c’è l’amore, proprio mai, non esiste, al meglio si presenta “la lussuria”! Faccio un unico, necessario, spoiler: la morte di Strauch richiama (non può non richiamare, anche per vicinanza cronologica) la fotografia del cadavere di Robert Walser – un autore bernhardiano quant’altri mai – il pazzo Strauch disperso e sepolto nella neve come il pazzo Walser riverso nell’abbacinante gelo della sventura dopo una vita di passeggiate senza speranza.

(Credit: Thomas Bernhard 1970” by Monozigote is licensed under CC BY-SA 4.0. “Thomas Bernhard (1987)” by Monozigote is licensed under CC BY-SA 4.0.”Thomas Bernhard’s House #2” by Christiaan Tonnis is licensed under CC BY-SA 2.0)

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