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D’Arrigo. Le pagine mai lette dell’Orca

Verrebbe da dire: non vale la pena procurarsi il libro di poesie Codice Siciliano (l’esordio del 1957), né il tardo romanzo quasi fantascientifico Cima delle nobildonne (1985), né tanto meno l’inedito Il compratore di anime morte (Rizzoli 2024), appena comparso, che pure è un inaspettato e prezioso dono letterario.

Questo perché Stefano D’Arrigo (1919-1992) è per fama l’uomo di un solo romanzo, anzi de Il Romanzo del Novecento Italiano – o almeno questo doveva essere Horcynus Orca. Con le sue 1257 pagine, l’Orca è un’“opera mondo” o, se preferite, un “libro unico” anche se non è stato scovato da Bobi Bazlen, oltre a essere, per rimanere alle etichette, un atipico best seller di qualità. Horcynus Orca vendette circa 100 mila copie compresa la prima versione tascabile, ma troppo presto si diradò l’aura leggendaria che si era addensata o era stata allestita attorno al grande romanzo dello scrittore di Messina.

La prima edizione

Horcynus Orca fu un capolavoro atteso e reclamato, tanto che Elio Vittorini nel 1960 ne anticipò sul Menabò cento pagine di una versione in progress, col titolo I giorni della fera (nel 2000, questa versione ma completa è stata resa disponibile da Rizzoli, come I fatti della fera). Vittorini pubblicò a tradimento e fece inferocire D’Arrigo, il quale sentiva di non avere ancora messo a punto il suo linguaggio e si sentì insultato nel vedersi spiegato sulla rivista da un glossario in 145 lemmi neanche lui fosse un post neorealista dialettofono.

Horcynus Orca ebbe un’incubazione lunga due decenni, tra il 1957 e il 1975, e contribuì a rovinare la salute dello scrittore: descritto come stremato da un’interminabile ultima stesura, schiavo di mal di testa e pillole, che lo facevano crollare a notte tra le pagine corrette e ricorrette o tra le braccia della moglie Jutta (vedi la dedica affettuosa dell’esergo), con il suo sforzo titanico D’Arrigo fornì involontariamente ai rotocalchi succoso materiale per rendere più appetibile il romanzo quando venne dato alle stampe – detto per inciso: la signora Jutta Bruto, altera e volitiva, schermo e super io di rinforzo al marito che chiamava Fortunato, cioè col primo nome registrato all’anagrafe, meriterebbe un post a sé.

Comunque. Horcynus Orca nacque best seller ma quasi morto, più oggetto di status culturale che “consumato” davvero, guadagnandosi presto la triste fama, perpetuatatasi nei lunghi anni in cui sparì dalle librerie, di essere stato pochissimo letto. Ci si sorprende a chiedersi: chissà mai che cosa accadrà al soldato della regia Marina ‘Ndrja Cambrìa, che nell’incipit troviamo di ritorno a casa il 4 ottobre del 1943, in approdo all’Isola delle Femmine, viaggiando sui mari dello “scill’e cariddi”… Intanto, edito Einaudi nel 1974, ovunque si diffondeva un’opera rivale non solo per tempistica, La Storia di Elsa Morante, destinata ad accaparrarsi il titolo di grande romanzo dell’Italia nel secondo tempo del secolo breve.

Negli utopici Settanta, la commerciabilità di Horcynus Orca soffrì di un molto presunto “difetto” allora non così evidente come lo è ai miseri e frettolosi internettiani giorni nostri, giorni in cui credo che D’Arrigo sarebbe morto da autopubblicato o addirittura non si sarebbe mai spinto ad annusare l’aria marcita attorno al cadavere maestoso del suo mitologico Leviatano, l’“orcaferone” in spietata e metaforica promessa di morte – chi volesse incrociarlo senza fare troppa fatica, mentre “si annienta annientando”, può aprire il testo a pag. 939 dell’edizione originale e poi proseguire finché ci riesce…

Dicevamo infatti: Horcynus Orca è un romanzo sperimentale, un continuum privo di capitoli e di divisioni tipografiche altre che un semplice doppio a capo, è di impegnativa lettura per l’incredibile invenzione e fusione linguistica dei più diversi materiali e per l’uso di ogni conosciuto artificio retorico. È proprio il modo in cui D’Arrigo racconta, il modo in cui D’Arrigo è riuscito a raccontare (per esempio con le sue acquatiche e onnipresenti onde di ripetizioni e di raddoppi di parola, ritmiche o ipnotiche), che costituisce l’idea stessa del suo libro inteso, pure al di fuori dei greggi letterari, come “una ricerca d’identità” (lo disse chiaro in un’intervista del 1992). Non è un caso che, nel passaggio da I giorni della fera al romanzo compiuto, si registri una forte attenuazione della componente dialettale nel lessico, aumentata invece nei dialoghi dei personaggi meridionali – così Ignazio Baldelli citato da Pierino Venuto ne La fera, il delfino e altre note di onomastica (Edizioni Ca’ Foscari), un illuminante saggio che scova nella dicotomia linguistica “fera”-“delfino” parte dell’essenza dell’Orca.

Bur, 2017

Arduo stile e alto il tema: quello del nostos, il ritorno a casa ormai impossibile dell’eroe vagabondo, in prospettiva duplice, storica e simbolico-mitica, qui rispettivamente nel senso di singola morte di ‘Ndrja Cambrìa e di Apocalisse totale di una civiltà “straviata”, come nota Ambra Carta in Variazioni sul tema del fantastico (Allori 2005) – un tema che ha nutrito la letteratura dall’alba dei tempi e congiunge in un ambizioso ponte attraverso i secoli l’Odissea e l’Orca (il grande sogno ininterrotto dell’Orca?), passando per tutta l’epica nota, “roncisvalla” e “maganzesca” che sia, e naturalmente per il Novecento dell’Ulisse joyciano.

Ma affrontiamo le 1257 pagine dell’edizione originale, che si presentò come un autentico mattone cartaceo, servito da alette assolutamente candide supplite all’interno da un anonimo segnalibro agiografico – una scheda, credo, attribuibile a Pontiggia – il quale sembra compilato per intimidire se non per spaventare l’acquirente, colto o inclito che sia, mentre cerca di tranquillizzarlo.

Si spiega che Horcynus Orca “…è una narrazione dai tempi lunghi, non solo in senso materiale, ma interiore […] un’unità di mondo morale e fantastico, completamente risolta in un linguaggio dove convergono e si potenziano reciprocamente […] le lingue ancora oggi parlate di quell’immenso deposito millenario che è la Sicilia: esse reagiscono con l’italiano delle codificazioni letterarie e producono, con continue contaminazioni e neologismi, una lingua insieme nuova e antica…”.

L’espressività del linguaggio, oltre all’identità di cui si diceva, “nella sua assoluta novità, ricrea sulla pagina il flusso della narrazione orale” spiega Carta nel saggio già citato, che è utilissimo a verificare lo scarto del romanzo dalla tradizione siciliana e a cavarne significati da prelievi testuali di significanti, fino ad approdare all’ultima metafora del libro, quella che specchia lo scavo linguistico di D’Arrigo nell’infinito ignoto del ritorno, “dentro più dentro, dove il mare è mare” – e citando queste parole conclusive possiamo pure cavarcela, dicendo di essere giunti al termine dell’Orca, nella pretesa di aver letto e non di aver sempre leggiucchiato qua e là.

Tutto ciò di cui sopra avveniva in una colta e persino ingenua società letteraria, che si divise a volte infastidita dal capolavoro tanto annunciato: rimase quasi per forza silenzioso Sciascia, fu ritroso Citati, convinto che D’Arrigo come scrisse sul Corriere della Sera concepisse la letteratura come una droga ottundente sé e il lettore, fu addirittura volgarmente irridente Siciliano (“Quest’Orca la cucino in fritto misto”), forse in ossequio a un’antipatia condivisa con Pasolini. Ai complimenti prevedibili, di Consolo e Bufalino, o di studiosi engagés come Corti e Giuliani, se ne aggiunsero di insospettabili, per esempio dal “chimico” Levi: “…come Mann, Belli, Melville, Porta, Babel e Rabelais, [D’Arrigo] ha saputo inventare un linguaggio, suo, non imitabile: uno strumento versatile, innovativo, e adatto al suo scopo”. Questo accadeva appena ieri, mentre, per tornare ai giorni nostri, nel pianeta angusto e straccione dell’odierna romanzeria patria, a parole pubbliche ci si accontenta di chiunque scrive gli affari suoi in un grigio gergo giornalistese.

Il romanzo inedito

Comunque, adesso è il momento di acquistare l’inedito Il compratore di anime morte (Rizzoli), scritto prima di Horcynus Orca, e di scoprire forse un altro D’Arrigo – lo scrittore morì, come si ricava da lettere agli amici, senza fare in tempo a imbarcarsi in un’altra storia di mare e (pare) di mafia. Copio qui l’inizio del testo che compare sul sito web dove ho ordinato Il compratore.“Ispirandosi a Le anime morte di Nikolaj Gogol’, D’Arrigo ci consegna una preziosa opera postuma in cui brillano tutta la vena satirica e la ricchezza linguistica che lo hanno reso un grande autore del Novecento. Rimasto nascosto finora tra le carte del Gabinetto Vieusseux di Firenze, Il compratore di anime morte è un viaggio inedito e spassoso tra la Napoli e la Sicilia di metà Ottocento, che mescola i toni della commedia e del romanzo picaresco. È la storia di Cirillo, orfano della Madonna, che superati i trent’anni di età non ha ancora perso la speranza di farsi finalmente adottare. La sua esistenza ordinaria di scrivano per il Regno delle Due Sicilie si ribalta una mattina per uno scherzo di rione, quando di bocca in bocca passa la notizia che il ragazzo nel sonno indovina i numeri buoni del lotto…”.

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