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Allonsanfàn
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Bolzano-Bozen, fermarsi nel luogo di passaggio

Ci sono i non luoghi. I luoghi di confine. E poi ci sono i luoghi di passaggio. Mi capita di scendere a Bolzano. A Bolzano-Bozen sarebbe più corretto come da segnaletica ferroviaria. Ma ancora non sarei preciso, toponomastica alla mano, tralasciando le varie declinazioni del ladino che sconfessano da subito ogni semplificazione basata sulla retorica del doppio. Ci sono stato qui – e con qui intendo la stazione – un paio di volte e sempre e soltanto per cambiare treno e salire in Alto Adige, e al ritorno indietro verso la Pianura, una volta ricordo con una puntata di qualche decina di metri appena per comprare dei bretzel in attesa della coincidenza. Ecco, il bretzel con quella forma annodata alle estremità a ricordare il nastro di Möbius potrebbe suggerire ora una facile analogia con l’arrivare e il tornare. Ma questa volta, per coincidenze strane, è sulla giuntura, l’interscambio, la torsione dell’anello che mi trovo a sostare. Sono a Bolzano, esploro il luogo di passaggio.

Una Mercedes Barra Otto parcheggiata proprio all’uscita sembra lì apposta per complicare ulteriormente le cose inserendo la variabile tempo nel già complicato rompicapo che smentisce da subito l’idea errata d’essere già in montagna – poco più del doppio dell’altitudine di Milano, in realtà. E una ragazza vestita in lattex e animalier, alla moda berlinese, l’idea della provincia borghese, tutta convenzioni e buone maniere. Il Parkhotel Laurin è a un centinaio di metri ed è un elegante palazzo Art déco, eclettica commistione di elementi e influssi artistici con una splendida sala affrescata da un ciclo di pitture che evocano la leggenda del Re dei Nani e un giardino all’inglese che è anche orto botanico per le erbe del King Laurin Gin che sorseggio accompagnato dalla tonica in attesa di uscire sotto una pioggerella londinese a vedere, con animo frastornato, cosa succede in città. Non prima di aver scambiato due parole con Andreas, il General manager, solo per scoprire che nella nostra carriera di giramondo eravamo nello stesso periodo a Nairobi, lui stanziale e io di passaggio – anche in quell’occasione per più gettonate mete sulle rotte del turismo – per esigenze diverse ma con un substrato in comune sufficiente per socchiudere la porta a un’immediata empatia.

Ma siamo a Bolzano anche se piove un cielo opaco come quel giorno a Nairobi e perciò andiamo a conoscerla questa città, supportati dalla vaga intuizione che chi cerca l’autentico più facilmente lo trovi oggigiorno negli snodi che sfuggono alla vacanza, nei luoghi trascurati dai consigli dei tour operator e dalle recensioni giornalistiche che consigliano o al limite indagano su ciò che è già parte dell’immaginario, ciò che essendo di consumo è già al contempo consumato in uno scambio tra offerta e fruizione che tornando a Möbius rende identico il sogno di evasione all’interpretazione turistica che quel sogno, adeguandolo, dopo averlo sollecitato, in risposta mette in vendita.

Se notoriamente allora si va per il Mercatino di Natale, quando capiti fuori periodo non trovi gli chalet in legno e le bancarelle paiono scheletrici resti di dinosauri dell’epoca di Ötzi trafitti da lampade al neon come il pastore (o era un re?) da un dardo ai piedi del ghiacciaio del Similaun. Ma come uno spettrometro di massa ci rivela chi fosse quel nostro antenato a partire dall’esame dei caratteri esteriori (e dal numero dei tatuaggi pure quanto contemporaneo egli fosse) una rapida occhiata alle merci esposte dai gestori sudamericani – tra chips di fragole e lamponi essiccati, tracce di mango, cocco e chili vicino agli steinpilze, aglio e olio premixati accanto al composto per la bruschetta e l’arrabiata senza una erre – racconta molto sul commercio locale in assenza di turismo. Sempre che le abitudini di consumo non siano ormai così omologate che pure le autoctone sciure dall’accento marcatamente tedesco non siano già loro condizionate a essere turiste nella loro medesima città e in corso di trattativa col piccolo ecuadoriano non si trovino – come pare – a tirare sul prezzo invece che delle mele dei datteri che complice il clima hanno trasformato il vicino Alto Garda nella Florida del Trentino o a mettersi in coda, come a Milano i milanesi e neppure per la michetta ma per il panino più o meno d’antan epperò fiorentino o per quello partenopeo con la mollica o senza o il maritozzo di Iginio Massari, non per il pan scosso o lo strudel, e lasciata la bici di volata sull’ingresso in “divieto di sosta” come mi segnala divertito il signore dall’evidente spirito meridionale, per prendere le mantovane e lasciare il Vinsgauer ai viandanti occasionali.

Ötzi stesso ci suggerirebbe allora per sfuggire al loop della scarsità che a quanto pare ci ha lasciato in eredità di evitare di seguire le indicazioni che portano all’accumulo di beni superflui sull’onda dell’immediata gratificazione e di abbandonarsi invece all’esplorazione serendipica senza tema d’uscire dalla comfort zone, barattando per una volta la sicurezza del noto e del fin troppo consigliato e recensito per l’incertezza così da trovare le ragioni del nostro andare nel mentre il cammino si compie.

Capita così d’essere contenti d’essere per caso a Bolzano e di perdersi apparentemente sotto l’occhio vigile del Nettuno pure nel centro che non è certo più grande di quello della Bologna della canzone, cercando un fiume, un ponte… trovando del tempo da perdere per inseguire un fantasma, la suggestione di una fotografia, il filo di un discorso… per essere trafitti da una freccia che riveli tra suggestioni Jugendstil, squarci di Klimt, lunette libertine, insetti da allucinazioni beat, toro e orso in versione Tapiro di Striscia, Monomon cibernetici, giraffe e pupazzi del Muppet con l’inatteso di una scoperta anche qualcosa di noi stessi a noi. Così, la fortunata coincidenza di una voce guida mi riconduce. per tunnel misteriosi, dai palazzi gotici dai colori pastello accostati come dorsi di una libreria Adelphi sulla via dei Portici a reinterpretare ciò che era sfuggito sotto l’apparenza della quinta mitteleuropea di un apparente struscio: la sostanza di una direzione… da est a ovest per proteggere dai venti freddi del nord in inverno e dal sole d’estate (come mi disse la ragazza di Bolzano dai capelli corti e neri che mi accompagnò in Val Pusteria quell’altra volta e con la quale parlai a lungo di proporzionale etnica e di identità qua dove Storia e Geografia nel mentre creano i confini li contraddicono: “Bolzano è la città più calda d’Italia”)… l’origine medievale di case caratterizzate dagli erker, i bovindi al secondo piano, che si sviluppano in lunghezza e nascondono all’interno doppi cortili per far entrare la luce e la scorciatoia segreta per arrampicarsi sui tetti. Dal flagship store Sportler come dal negozio di calzature Rizzolli, da J.Mohr o dal fine dining Arôme by Thaler, sapendolo, si può infatti salire dal cavedio sulle terrazze che si affacciano sulla città per ammirare le montagne che la circondano. Quelle stesse montagne che probabilmente furono d’ispirazione per gli artisti della scuola di Giotto che nella cappella di San Giovanni, poco distante dal più celebrato duomo tardo-gotico, rappresentano la Morte come un diavolo a cavallo che scaglia frecce al pari della Dea Alata sul Monumento della Vittoria del Piacentini in direzione dell’Austria. Sono terremoti quelli che così provoca che portano alla luce con la nostra caducità di fuggitivi un senso più profondo della vita come le bombe della Seconda guerra mondiale hanno svelato l’origine paleocristiana e poi medievale del duomo e le Dolomiti sono là a mostrare la loro origine sottomarina.

Dalla terrazza del Museo di Arte contemporanea si contemplano nell’azzurrità del cielo finalmente terso le due facce della città e su quella del Meta Skybar in piazza Walther sorseggiando a mezzogiorno bollicine brut con signature Kettmeir… ripensando alla cena della sera precedente alla glasshouse del ConTanima, esperienza multisensoriale dove il ristorante è quinta teatrale con marchingegni scenografici e soffitti che ribaltano la sala da pranzo in un’illusione alla Erlich e la cucina diventa game per contaminazioni e giochi di prestigio (e una pastiera può reinterpretare il Cristo velato mentre in sottofondo suonano i Nu Genea)… si allunga la lista delle beatitudini che rendono degni d’essere bolzanini oltre a possedere una casa nei portici, il proprio posto a sedere nel duomo e a teatro, l’estate al fresco in montagna a Renon, un maso da coltivare, un guardaroba così esteso da poter lavare solo due volte all’anno, una ragazza di Bolzano da sposare e una tomba di famiglia. Quelle montagne che il re Laurin, tradito, volle nascondere agli occhi degli umani, né di giorno né di notte, scordandosi del momento di passaggio, all’alba e al tramonto, in cui ancora e sempre l’enrosadira le rivela come un giardino di rose.

Tutte le fotografie sono di Gabriele Nava

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